La questione Twitter-Trump-Facebook è una nuova tappa della trasformazione del significato sociale e mediatico di quei dispositivi che abitualmente si definiscono media sociali. Questo è un post di ricerca per avanzare nel ragionamento che serve a intravvedere dove tutto questo ci può portare.
I dipendenti di Facebook che con coraggio hanno preso posizione pubblicamente su Twitter contro la decisione di Mark Zuckerberg di non rimuovere il post di Donald Trump che incita alla violenza dopo aver chiamato “teppisti” i manifestanti che protestano per l’assassinio di George Floyd commesso da un poliziotto di Minneapolis (“When the looting starts, the shooting starts.”) sperano che la loro azienda non si presti ad alimentare la polarizzazione e il clima di divisione che una parte della politica pensa di poter cavalcare (WSJ). Ma in questo modo dimostrano di pensare che Facebook non sia soltanto un insieme di hardware e di software che la gente può usare come vuole.
I responsabili di Twitter che invece hanno oscurato il post di Trump (si può vedere solo dopo aver letto un box con scritto che viola le regole di Twitter contro l’incitamento alla violenza) a loro volta non si vogliono rendere complici di quello che appare come un pericolo per la pace sociale. Ma in questo modo dimostrano di pensare che Twitter non è una piattaforma acritica nei confronti dei messaggi che gli utenti vi lanciano.
Trump, che ha minacciato di intervenire trasformando la legge che regola le piattaforme in modo che esse diventino responsabili di quanto viene pubblicato, lo fa per alimentare la conflittualità e colpire al cuore il modello di business delle piattaforme. Ma a modo suo fa traballare l’idea che si tratti di tecnologie asettiche e fa emergere l’idea che siano attività in qualche modo editoriali.
C’è molto di falso in tutte queste posizioni. Twitter non può far credere di fare sistematicamente il factchecking di tutto quanto viene postato dalle centinaia di migliaia di utenti. Facebook non ha una linea editoriale ma non è neppure una semplice tecnologia neutrale e già oggi interviene su moltissimi post illegali o impropri. Trump ha bluffato dicendo che cambierà la legge: non può certo farlo con un post. Ma tutte queste prese di posizione, mentre sconvolgono i mercati finanziari, generano anche qualche cambiamento di percezione sulle piattaforme, rendendo sempre meno probabile che la situazione resti tale e quale a come è ora. La spinta a cambiare le regole è sempre più forte. Anche perché la struttura attuale non è sostenibile.
Come spesso succede nel mondo di internet, per ragionare intorno a queste cose si deve ricorrere a categorie incerte e nuove: spesso in mancanza di meglio si usano le metafore per far comprendere che cosa si intende dire. Se una metafora prende piede, la comprensione del mondo nuovo generato da internet diventa più chiara e si sa come agire. Fino a che si arriva a qualche contraddizione.
Con qualche ipocrisia si è detto, a partire dall’amministrazione Clinton-Gore, che le piattaforme su internet non sottostanno alle regole normali perché devono essere libere di innovare. Che cosa sono in quel contesto? Sono come il software e lo hardware. Conseguenza? La Microsoft non è responsabile di quando i suoi clienti scrivono su Word. Se Tizio scrive su Word una lettera diffamatoria contro Caio, ad essere accusato non è Microsoft. Generalizzando, chi usa una piattaforma si prende le sue responsabilità e la piattaforma non interviene. In questo senso si esprime Zuckerberg rifiutandosi di eliminare il post di Trump. Sembra una metafora solida. Ma non lo è stata nel caso di Napster, quando la linea di difesa era esattamente questa: “noi facciamo un software per lo scambio di file in rete, non siamo responsabili se gli utenti lo usano per scambiarsi musica senza pagare il copyright”. Alla fine le autorità sono riuscite a chiudere Napster e le altre soluzioni simili. E non lo è in molti casi attuali: le leggi per esempio impongono alle piattaforme di impedire per esempio la pedofilia. D’altra parte dire che Facebook è soltanto software che ciascuno usa come vuole è abbastanza folle, visto che le dinamiche sociali si muovono per imitazione, per aggregazione, per ambizione e Facebook le sfrutta in pieno per alimentare ogni genere di comportamento che induca le persone a usare di più la piattaforma, a rivelare più di sé, a cercare successo reputazionale sfruttando gli strumenti a disposizione, e in questo modo guida la produzione di contenuti molto attivamente e non si limita a trasmettere quanto gli utenti decidono in tutta libertà di creare. Twitter a sua volta sembra fatta per cercare seguaci e in questo modo incentiva strategie di reclutamento. Le forme con le quali gli utenti usano queste piattaforme variano, ovviamente, ma stanno nei binari progettati con le piattaforme stesse: si può fare like, si può essere seguaci, ma in generale si cerca e dona attenzione; non c’è nessun modo per discriminare intorno alla qualità di ciò cui si dedica attenzione e il post di un premio Nobel gioca la sua partita dell’attenzione nello stesso campo nel quale gioca un banalizzatore, un odiatore, un manipolatore e così via. È logico: in fin dei conti le piattaforme che vendono attenzione non si interessano del motivo per cui quell’attenzione è raccolta.
Si può dire che la metafora del puro e semplice software non spiega le piattaforme. Facebook non è come Word. In un certo senso induce l’utente a scrivere qualcosa e impedisce o scoraggia a scrivere altro. Ma non per niente anche tra loro i social network si sono differenziati in base alle loro logiche: Twitter più agenzia di informazione, Facebook più comunicazione, Instagram e TikTok più immagine, Linkedin più connessioni professionali, Whatsapp più bolle di filtri esplicite, e così via. Ma in fondo sono in un social network anche i partecipanti a Wikipedia che fanno un passo indietro per la loro immagine e collaborano dietro le quinte in nome di un progetto comune, enciclopedico. E sono social network anche quelli che linkando pagine sul web senza parlarsi tra loro danno a Google il materiale che serve per valutare l’importanza dei contenuti online. Internet è un grande social network, in fondo. E i comportamenti diversi che si sviluppano sulle sue varie incarnazioni sono abilitati e insieme guidati dalla struttura degli strumenti.
Ma se le piattaforme non sono mero software, che cosa sono?
Spesso si è detto che Facebook potrebbe essere un’infrastruttura per la comunicazione, una sorta di telefonia di nuova generazione. Non lo è. Ma potrebbe assomigliare a questo. E potrebbe essere regolata come un’infrastruttura telefonica.
Anche più spesso si è parlato di Facebook come un editore che acquista contenuti dagli utenti ripagandoli con i contenuti di altri utenti e in questo modo generando un servizio di informazione utile che si finanzia con la pubblicità.
Queste categorie tradizionali non si applicano facilmente alle piattaforme digitali, per molti motivi:
1. Le infrastrutture sono fortemente regolate e di solito sono pagate con soldi pubblici o con le bollette degli utenti (non si ripagano con la pubblicità)
2. Gli editori si prendono una responsabilità per quello che pubblicano, benché abbiano modelli di comportamento diversi se vendono spazi pubblicitari o abbonamenti (ma le piattaforme non si prendono responsabilità)
3. Il software è un mero strumento che non implica particolari forme di incentivazione a certi comportamenti da parte degli utenti e comunque non si appropria in nessun modo dei contenuti che gli utenti vi immettono (le piattaforme lucrano sui dati immessi dagli utenti)
In realtà, si potrebbe cercare di capire come cambiare la situazione non imponendo una metafora vecchia ma cercando una definizione nuova.
Su internet ci sono alcuni caratteri originari piuttosto nuovi:
1. Non c’è un pubblico passivo, ma un pubblico attivo che insieme legge e scrive
2. I modelli di business sono vari: abbonamento, sostegno volontario, pubblicità
3. I dati raccolti sono parte integrante del business ma non sono né proprietà delle piattaforme né degli utenti
4. L’effetto-rete conferisce alle piattaforme più usate un valore enormemente superiore a quello delle piattaforme meno usate, in ciascuna categoria
5. La competizione si svolge creando nuove categorie, creando nuovi mercati, piuttosto che combattendo per le quote di mercato nelle categorie di servizi esistenti
6. Il futuro è dettato da una forte innovazione tecnologica
7. La direzione politica è sempre difficile come è complesso l’ecosistema dei media digitali, ma agisce di solito più efficacemente per principi abilitanti più che per regole puntuali
Per questo le indicazioni normative non sono banali. Le piattaforme non diventeranno editori o utility per legge. Ma dovranno avere qualche caratteristica che faciliti il perseguimento degli obiettivi che le società si danno per cercare una convivenza civile.
Obiettivi possono essere:
1. Le piattaforme diventino interoperabili (come del resto tutta internet dovrebbe restare o tornare neutrale cioè non discriminatoria alla circolazione dei pacchetti di informazioni) in modo che le posizioni dominanti non siano troppo inattaccabili e la capacità innovativa resti forte per moltiplicare le modalità di utilizzo della rete e non creare forme di conformismo culturale dettate dalla potenza delle strutture delle grandi piattaforme
2. Sia scoraggiata la vendita di dati personali sotto qualunque forma, applicando fino in fondo il GDPR in Europa e definendo i dati in modo innovativo: per esempio come dice Maria Savona definendo i dati non come patrimonio delle aziende che li registrano ma come diritto d’autore delle persone che li creano
3. La responsabilità della qualità dei contenuti sarà di chi li posta, ma le persone dovranno essere protette dalle debolezze proprie e altrui (come vengono protette le persone che per la loro debolezza eccedono con alcool e droghe) sicché con l’intervento di autorità competenti si terrà sotto controllo il rapporto tra la forma delle piattaforme e il contenuto emergente creando condizioni di controllo esplicite e trasparenti: una piattaforma con tre miliardi di utenti non può controllare i singoli post, ma può essere chiamata a modificare gli algoritmi di selezione delle informazioni in modo che non siano omogenei al comportamento delle persone ma plurali (in modo da moltiplicare i punti di vista cui ciascuno accede e non ridurli a uno)
4. Se le piattaforme vogliono diventare editori e accettano le responsabilità conseguenti possono decidere che cosa si può postare e che cosa non si può postare. Se non vogliono diventare editori ma restare piattaforme non saranno loro a decidere quali contenuti lasciare e quali togliere. Se questo produrrà un crescente inquinamento mediatico, le autorità potranno denunciarlo sulle piattaforme con l’obbligo di fare arrivare a tutti il messaggio e le comunità degli utenti dovranno essere abilitate a intervenire con strumenti adeguati per salvaguardare la qualità dell’ecosistema, naturalmente previa deliberazione e decisione multistakeholder con tanto di parere esplicito di magistrati e filosofi nei casi più difficili.
5. La moltiplicazione delle piattaforme, con diverse logiche e forme, potrebbe essere una strategia importante per ridurre la portata delle singole azioni violente, di incitamento all’odio, o di banalizzazione degli argomenti, ma richiede più interventi antitrust che censure specifiche.
Tutto questo può essere troppo complicato e comunque parziale. Ma la storia della rete non si fa con piani quinquennali generali decisi dall’alto: si fa cercando possibilità, esplorandone la fattibilità, studiando le conseguenze e continuando a correggere ciò che si sa e ciò che si fa. La rete si governa con il metodo scientifico molto più che con l’ideologia o la tecnocrazia.
Nella serie degli scenari che abbiamo formulato qualche giorno fa, il progresso richiede direzione e innovazione: cioè un sistema che abilita la sperimentazione e la creazione di nuove soluzioni ma in un quadro incentivante che va nella direzione del vantaggio di tutti e non di pochi. In tutti gli altri casi si va in una direzione poco soddisfacente: se c’è innovazione ma non c’è direzione la finanza acefala spinge il sistema verso l’innovazione fine a se stessa arrivando all’insostenibilità sociale e culturale; se c’è una forte direzione ma senza adattamento al cambiamento si finisce nella tecnocrazia che esclude la ricerca creativa del benessere a favore del soddisfacimento di principi forse originariamente ragionati ma poi sclerotizzati in ideologie di potere; e se non c’è né innovazione né direzione i grandi poteri riescono a imporre il loro unico obiettivo, quello di sopravvivere in una chiara dinamica autoreferenziale, portando verso qualcosa che potrebbe essere un nuovo fascismo.
Cambiare le regole di internet non è cosa che si faccia facilmente. È come intervenire sull’ecosistema. Ogni elemento è connesso con ogni altro. E gli equilibri dinamici sono delicati. Ma l’evoluzione è l’esplorazione delle possibilità. Se blocchiamo questa ricerca facciamo violenza alla storia e all’umanità. Un approccio sensato all’ecologia dei media non spera nell’assenza di problemi e distorsioni ma nella continua ricerca di nuove conoscenze e nell’apertura culturale a discernere le soluzioni capaci di offrire vantaggi alla pluralità delle dimensioni umane. Nessuno dice che sia facile.
Quello che è successo finora è l’esplosione di un’industria internettiana delle piattaforme che hanno sfruttato un’idea essenzialmente pubblicitaria o una struttura di gestione del marketplace e hanno affidato la gestione delle esternalità negative alla comunità. Oggi la comunità deve imparare a imporre alle piattaforme di internalizzare i costi non solo economici ma anche strutturali di quell’inquinamento mediatico che ne è emerso. Il percorso da fare non è certo quello di tornare a categorie concettuali adatte a un mondo passato. Le piattaforme vanno comprese per quello che sono.
Vedi in questa serie:
A proposito di Uber Italia. Quattro scenari. Progresso, fascismo e deviazioni varie
Quattro scenari sul futuro: un ragionamento intermedio
Quattro scenari sul mercato e la società dopo il COVID-19. Uno è orribile
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