C’è un equivoco talvolta nel dibattito che riguarda il nuovo paradigma economico che emerge dalle discussioni su temi legati alla condizione post-industriale, all’economia della conoscenza, all’economia della felicità.
L’equivoco deriva dalla pars destruens di quelle analisi.
Di solito la critica dell’economia tradizionale parte dalla discussione del Pil come indicatore di felicità, come indicatore del valore della conoscenza, come bussola per lo sviluppo post-industriale. Spesso si osserva come la crescita nel paradigma industriale, caratterizzato dalla produzione e dal consumo di massa, abbia condotto a disperdere valore ambientale, culturale e relazionale. E tutto questo ha un fondamento chiaro e forte. Ma concluderne che il nuovo paradigma sia contrario alla crescita è un errore altrettanto chiaro.
Il problema teorico di queste analisi deriva dal fatto che l’economia tradizionale non lasciava spazio alla ricerca sui fini dell’attività economica. Questa, secondo Robbins, era una questione di etica, di politica, di religione, di cultura. Lasciando fuori dalla porta la discussione sui fini, l’economia tradizionale era costretta a fare delle supposizioni forti: l’homo oeconomicus, per esempio. Oppure si limitava a dire che non potendo discutere i fini non poteva che concentrarsi sulla moltiplicazione dei mezzi. La crescita era la strada per garantire a qualunque finalità di essere perseguita.
Oggi questo non basta più. Il passaggio di consapevolezza è questo: le risorse ambientali sono limitate, le identità culturali sono preziose, il tempo da dedicare alle relazioni umane è fondamentale, per la sostenibilità, la felicità, la qualità della vita. Questo genere di considerazioni si traduce in un insieme di vincoli dei quali la ricerca economica deve tener conto, ma che non vanno interpretati come limiti alla crescita. Sono piuttosto stimoli in più e indirizzi per la crescita: sono elementi da considerare per definire gli obiettivi qualitativi della crescita. Non sono per nulla nemici degli obiettivi quantitativi della crescita. Anzi: qualità e quantità possono andare – talvolta devono andare – avanti parallelamente.
Se la priorità è la qualità della vita, le scelte economiche risultano effettivamente più complesse, perché le considerazioni che conducono a operarle sono più ampie: tra i fattori abilitanti di un progetto di miglioramento della qualità della vita c’è anche la crescita del Pil, insieme a un sistema di criteri di azione qualitativi altrettanto rilevanti. Che diventano normative dello stato, marketing delle aziende, preferenze dei consumatori. E che indirizzano i percorsi dell’innovazione. Tutto questo sta avvenendo sotto i nostri occhi.
Alzare o abbassare gli investimenti sui beni culturali, l’educazione, la ricerca, piuttosto che alzare o abbassare gli stimoli ai consumi non è irrilevante: può avere analogo effetto sul Pil ma può avere diverso effetto sulla qualità della vita. Pensarci non è un optional: è un dovere di chi decide e della società che se ne fa un’opinione.
Lo si comprende vedendo la questione dalla parte opposta. La qualità della vita non deriva dalla decrescita. Si può decrescere e nello stesso tempo disperdere ancora di più beni culturali, relazionali e ambientali: smettendo di investire su queste risorse si decresce e si peggiora. Perseguire la decrescita non ha alcuna relazione con il miglioramento della qualità della vita. La decrescita, infatti, è a sua volta soltanto un fatto quantitativo.
Il nuovo modo di pensare l’economia non è contro la crescita. E’ a favore della crescita. La novità è semplice: ci siamo accorti che qualunque percorso di crescita o decrescita quantitativa, ha implicazioni qualitative. Possono essere implicite o esplicite. La novità è che si possono rendere esplicite e decidere di conseguenza. Lo si è sempre fatto, in fondo: il problema è che le considerazioni qualitative sono diventate più urgenti. Perché, nell’epoca della conoscenza, c’è anche il sospetto che siano parte integrante delle precondizioni della crescita quantitativa. Del resto, la crescita quantitativa consente di investire in innovazioni che ripuliscano l’ambiente, restituiscano tempo alle relazioni, alimentino le identità e i patrimoni culturali. I due processi, qualitativo e quantitativo, vanno con ogni probabilità insieme. Non all’opposto.
Per questo non ha neppure senso abbandonare il Pil. Ha senso integrare il Pil con altri indicatori. E’ facile scendere in banalizzazioni ideologiche: il pragmatismo è intellettualmente più sofisticato. E molto più produttivo.
Imho.
ps. La ragione deve pur contare qualcosa.
100 usd di carbone e 100 usd di software sempre 100 usd sono, per il pil.
forse, prima ancora di dire di misurare “la qualità della vita” che è una cosa su cui facciamo fatica a metterci d’accordo nella definizione, basterebbe misurare i due tipi di pil come i due tipi di colesterolo.
pil materiale e pil immateriale
la ricchezza è infinta e la crescita può essere illimitata, ovvero limitata dai cervelli/sistemi che fruiscono del pil immateriale.
imho.
Bel contributo grazie! (sulla questione di mettersi d’accordo sulla qualità aggiungo però che lo facciamo in modo assurdamente inconsapevole per esempio con la finanziaria. Hanno deciso di abbassare gli incentivi alle imprese che fanno ricerca ed è una scelta che ha impatto sulla qualità, hanno prorogato la cig e gli incentivi alle ristrutturazioni edilizie con risparmio energetico, tutte scelte che hanno impatto sulla qualità della vita…)
Bisogna considerare anche il breve-lungo termine: gli ivestimenti in ricerca hanno un effetto a medio-lungo termine, la CIG e gli incentivi sulle ristruturazioni ne hanno uno a breve. Visto che la coperta è cortissima, direi che oggi è meglio puntre ad un sollievo a breve, anche eprchè senza un sollievo a breve si hanno poi problemi a lunga U(es. se saltano oggi le aziende di costruzioni e dell’efficienza energetica, che succede tra cinque anni ? Se invece, se la cavano, magari hanno soldi da investire, oltre che per generare reddito e consentire, esempio, ad un liceale di andare all’Università, invece di dovere andare a lavorare perchè sennò in famiglia si è in difficoltà).
Bisogna considerare anche il breve-lungo termine: gli ivestimenti in ricerca hanno un effetto a medio-lungo termine, la CIG e gli incentivi sulle ristruturazioni ne hanno uno a breve. Visto che la coperta è cortissima, direi che oggi è meglio puntre ad un sollievo a breve, anche eprchè senza un sollievo a breve si hanno poi problemi a lunga U(es. se saltano oggi le aziende di costruzioni e dell’efficienza energetica, che succede tra cinque anni ? Se invece, se la cavano, magari hanno soldi da investire, oltre che per generare reddito e consentire, esempio, ad un liceale di andare all’Università, invece di dovere andare a lavorare perchè sennò in famiglia si è in difficoltà).