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Libro. Nils Melzer: Il processo a Julian Assange

Nils Melzer ha scritto un libro che va letto: “Il processo a Julian Assange”. È stato pubblicato in Italia da Fazi Editore nell’aprile del 2023. La versione originale è del 2021. La vicenda riguarda una storia giudiziaria durata almeno una dozzina d’anni, quella del fondatore di Wikileaks. È una storia che serve a comprendere come l’Occidente stia tentando di ridefinire l’equilibrio tra il diritto dei cittadini a essere informati e la libertà d’azione degli stati nella difesa della sicurezza nazionale. E per l’Europa che purtroppo si trova da un anno a fronteggiare una guerra sul suo territorio, questa questione propone dati di fatto che vanno conosciuti.

Julian Assange non è un personaggio simpatico. Molti lo vedono semplicemente come un ladro di documenti, per qualcuno è addirittura un terrorista, mentre tante altre persone lo considerano una sorta di eroe dell’epoca digitale. Di sicuro, con la sua opera ha contribuito a pubblicare documenti che hanno consentito ai cittadini in Occidente di conoscere come operavano i soldati americani in Iraq e che informazioni si scambiavano i diplomatici americani, oltre a una quantità di operazioni borderline di varie aziende e autorità in Europa e America.

Nils Melzer ha scritto il libro, insieme a Oliver Kobold, in seguito alla sua inchiesta sulla vicenda di Assange, condotta in qualità di relatore speciale alle Nazioni Unite sulla tortura.

Melzer, come molti cittadini occidentali, per molto tempo aveva seguito le vicende di Assange con una certa distrazione. Aveva in mente quell’atteggiamento un po’ paranoico che chiunque abbia incontrato Assange non poteva non notare. Si ricordava delle accuse di stupro che gli erano state rivolte da due donne in Svezia. Sapeva ovviamente che la sua piattaforma Wikileaks era stata in grado di rivelare documenti scottanti. E era al corrente del fatto che Assange si era rifugiato per anni nell’ambasciata dell’Equador a Londra per evitare il processo. Sicché quando Assange gli scrisse per chiedere aiuto non degnò di molta attenzione il messaggio. Ma alcune circostanze che si sono create nel contesto del suo mandato all’Onu lo avrebbero condotto a ricredersi.

Quando finalmente si è occupato con attenzione del caso, si è reso conto che, dal punto di vista del diritto internazionale, il trattamento riservato ad Assange era un esempio di una sottile forme di tortura che sulla spinta del governo americano, i sistemi giuridici inglese e svedese avevano contribuito a realizzare. E ha compreso che la vita di Assange era in pericolo. Per questo ha deciso di approfondire l’argomento.

Al centro della questione, alla fine, c’è un problema molto chiaro: Assange ha messo in piedi un sistema molto innovativo per favorire la pubblicazione di documenti segreti che potevano mettere in difficoltà il potere politico o economico. Per il governo americano le pubblicazioni su Wikileaks hanno messo a rischio la sicurezza di civili, soldati, diplomatici, alleati in diverse zone di guerra e di pericolo. Per i difensori di Assange quelle pubblicazioni sono state semplicemente altrettanti atti di giornalismo.

Per Melzer, è una questione di equilibrio: da un lato, c’è la segretezza delle operazioni militari e diplomatiche necessaria per gli stati che devono fare il loro lavoro di fronte ai nemici della sicurezza nazionale; dall’altro lato, c’è la trasparenza delle informazioni che il giornalismo è chiamato a creare nei casi in cui questa serva ai cittadini per formarsi un’opinione sull’operato dei loro governi.

In generale, la libertà di pubblicazione di documenti segreti, dal tempo dei Pentagon Files rivelati dal New York Times nonostante la durissima opposizione dell’allora presidente americano Richard Nixon negli ultimi tempi della guerra del Vietnam, era stata garantita dalla Corte Suprema degli Stati Uniti. Wikileaks operava in quel solco – di fatto uno spazio giornalistico – dice Melzer, perché serviva a rendere disponibili i documenti segreti, difendendo per via tecnologica l’identità di chi li pubblicava. Con quei documenti, i giornali tradizionali potevano avviare le loro inchieste, oppure il pubblico poteva farsi un’opinione. Non era sempre facilissimo per Wikileaks verificare l’autenticità dei documenti e quindi la collaborazione con i giornali era particolarmente intensa. Ma in tutti i casi, Wikileaks difendeva le fonti. Casomai, nell’etica giornalistica, si era sempre fatta una certa distinzione tra l’attività di pubblicazione di documenti riservati e la copertura delle fonti, che la democrazia ritiene perfettamente legittima, e l’attività di sollecitazione delle fonti a rivelare documenti riservati, addirittura pagandoli, che invece non è ritenuta legittima. E nel caso Chelsea Manning, Assange è sospettato di aver operato in modo da spingere la fonte a pubblicare, anche tentando di aiutarlo a superare la barriera di una password, e così secondo l’accusa varcando un limite, peraltro non del tutto semplice da definire.

In ogni caso, appunto, la vicenda riguardava l’equilibrio tra il giornalismo e la sicurezza nazionale.

Questo equilibrio è restato un obiettivo valido per decenni anche se si è modificato nel tempo. In peggio. Indubbiamente, infatti, in un contesto come quello definito dalle proteste studentesche degli anni Sessanta e dalla loro capacità di credere in una modernizzazione della democrazia, i Pentagon Papers, come poi le rivelazioni sullo scandalo Watergate, avevano generato una forte indignazione nell’opinione pubblica americana e alla fine avevano addirittura condotto alle dimissioni di un presidente che aveva mentito. Decenni dopo, le rivelazioni di Knight Ridder sull’inconsistenza delle prove sul fatto che Saddam Hussein avesse armi di distruzione di massa e dunque sulla falsità del ragionamento che aveva condotto alla sanguinosa guerra in Iraq non avevano prodotto un’indignazione generalizzata, avevano in effetti incontrato con una specie di muro di gomma, non avevano provocato le dimissioni del presidente George W. Bush e della sua amministrazione guerrafondaia. E il caso emerso grazie al documento che era stato messo a disposizione del pubblico da Manning riguardava proprio la ferocia di alcuni militari americani nella loro opera di distruzione della vita in Iraq.

È chiaro che l’equilibrio tra libertà di informazione in America e libertà del governo americano di operare secondo il suo giudizio per la sicurezza americana si svolge in un contesto sempre più difficile per il giornalismo. Le informazioni sono interpretate diversamente nei circoli democratici e repubblicani. Piuttosto che valutarle per quello che dicono, si cerca spesso di vedere che cosa c’è dietro. La sicurezza americana è comunque pensata come un obiettivo importante, ma l’impegno che serve per conoscere bene quello che succede è poco perseguito, mentre più spesso ci si limita a reagire ai brevi messaggi che si trovano sui social media sulla base di pregiudizi e banalizzazioni, e le persone si trovano in ambiti sociali frammentati, polarizzati, radicalizzati.

Ma la vicenda del processo ad Assange svolge un ruolo importante per gli sviluppi futuri di questo equilibrio – secondo Melzer che ha ricostruito appunto quella vicenda in qualità di relatore speciale alle Nazioni Unite sulla tortura – perché il governo americano e i suoi alleati sembrerebbero voler fare di Assange un esempio. Che cosa vogliono far capire, secondo Melzer? Che chi osa far sapere qualcosa sulle manovre segrete degli americani sarà perseguito in tutto il mondo e considerato un pericolo alla sicurezza nazionale dunque sostanzialmente privo di diritti.

Melzer avverte che quello che è stato fatto finora ad Assange è una forma di tortura, difficilmente sopportabile per una persona. Nessun giornalista, dice, si può sentire al sicuro se pubblica documenti segreti americani. E lo dimostra il fatto che se Assange alla fine non è stato estradato in America non è certo perché le accuse contro di lui siano state considerate infondate, ma solo per motivi umanitari. E questo nonostante che il governo americano non abbia in tanto tempo trovato alcuna prova che le notizie pubblicate attraverso Wikileaks abbiano in effetti causato danni a qualche persona in particolare o a qualche aspetto specifico della sicurezza nazionale americana.

Si può pensare che nel corso della guerra in Ucraina, l’equilibrio tra la sicurezza e la libertà di informazione si sia ulteriormente spostato a favore della prima. E questo può essere fisiologico, purché sia chiaro che è temporaneo e destinato a finire con la guerra. Una chiarezza che potrebbe essere migliore.

Nel suo libro Melzer si trova spesso a fare qualche considerazione basata su giudizi di valore. Ma in generale si impegna a portare all’attenzione fatti documentati e domande che conducono a mettere insieme quei fatti in modo piuttosto trasparente. Il suo libro è un’esperienza utile per chiunque, qualunque cosa si pensi della vicenda.


Foto: “Noam Chomsky quotation on Julian Assange” by alisdare1 is licensed under CC BY-SA 2.0.

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Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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