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Il bicchiere a metà. L’identità di un paese non è definita dallo storytelling, ma dalla storia

Una policy orientata al bene comune ha una portata di lungo termine, è implementata da una successione di governi e dovrebbe essere inclusiva, aperta, collaborativa. Spesso non è così. La policy europea di questi anni è andata avanti in modo poco inclusivo e sta generando contraccolpi distruttivi. Come si è visto con le elezioni polacche e francesi. Con fermenti analoghi in molti altri paesi. Vediamo in proposito una microstoria. Quella del digitale italiano.

Quando le logiche della comunicazione partigiana sono applicate a un tema strutturale come quello della modernizzazione digitale di un paese come l’Italia rischiano di fare danni. Nel breve termine possono sostenere un nuovo frame, contribuendo a sottolineare un positivo cambio di passo nella policy. Nel medio termine, però, rischiano di allargare troppo il solco tra le aspettative e la realtà, finendo con il concentrare la discussione soltanto sulla loro caratteristica fondativa: la partigianeria, il “chi è dentro e chi è fuori”, il “chi è pro e chi è contro”. Paradossalmente, rafforzano sia chi è pro e sia chi è contro. Non c’è nulla di nuovo: la strumentalizzazione polemica di qualunque cosa in Italia è una specie di mania da almeno un ventennio. E ha radici profonde: la tifoseria è una delle caratteristiche essenziali della socialità italiana e la sua migliore qualità non è quella dell’analisi equilibrata dello stato dei fatti. Ma l’ottimismo e il pessimismo sono stati d’animo, non analisi. E tantomeno progetti.

Su questa faccenda che si debba sempre valutare se il bicchiere sia mezzo pieno o mezzo vuoto si è detto già fin troppo, a mio parere (HuffPost). Così come, in fondo, si è detto troppo della commistione di mezze bugie e mezze verità (Key4Biz). Il tema è casomai quello di valutare in concreto la situazione, al di là delle tifoserie avversarie (AlfonsoFuggetta). La discussione centrata è quella che serve a sostenere il successo del paese nella sua modernizzazione digitale, nella sua ripresa economica, nella sua innovazione generatrice di occupazione, crescita, miglioramento della qualità della vita. La fiducia ne è una parte, non il tutto.

Non si può non vedere che anche la migliore e più talentuosa comunicazione non può prescindere dal senso di quello che dice. Se si riduce il passaggio storico che l’Italia attraversa a una partita tra due opposti storytelling, quello degli ottimisti e dei pessimisti, non si aiuta a comprenderlo. Se si evangelizza al digitale paragonando lo storytelling ottimista a quello che muove un “popolo” verso “la terra promessa” si rivelano convinzioni vagamente sproporzionate. Se si chiede di perseguire obiettivi comuni ma si sottovalutano le critiche si finisce in contraddizione. Se si afferma che raccontare le storie dei fablab ha cambiato l’identità dell’Italia non si mostra di conoscere l’Italia (HuffPost).

L’identità del paese non è definita dallo storytelling ma dalla storia. L’Italia è da sempre una fucina di nuove imprese e di innovazioni più o meno note. L’Italia delle imprese innovative, negli ultimi quindici anni, ha trasformato la generazione di valore aggiunto in larghe aree dell’agricoltura, dell’arredamento, dell’abbigliamento, dell’automazione industriale, della salute, della meccanica. Con il design, con la qualità del prodotto, con la riorganizzazione produttiva e di mercato. Talvolta, più raramente, con l’elettronica e il software. Ma sviluppando nell’elettronica almeno un campione mondiale come la STM, che viene da lontano e che ha costruito un business miliardario sui sensori, senza aspettare nessuno storytelling. Gli imprenditori italiani hanno continuato ad accrescere le esportazioni nel corso della crisi e della recessione, prima e indipendentemente da qualunque storytelling. Di sicuro, un po’ di fiducia aiuta. Ma purtroppo non basta: il rallentamento dell’economia mondiale sta rallentando le esportazioni, proprio adesso, nonostante la fiducia. È naturale che chi governa si intesti i successi anche quando non sono frutto delle sue operazioni, ma finisce che poi si prende anche i demeriti, anche quando non sono conseguenza delle sue azioni. Quello che questo governo ha fatto per l’economia è importante: il Jobs Act e il sostegno ai consumi avranno probabilmente un impatto reale. Quando farà qualcosa anche sul piano del digitale avremo modo di valutarne il merito: il tempo degli annunci è passato. E le premesse per un cambio di passo ci sono.

Il problema è che in un processo profondo, come quello della modernizzazione di un paese, è chiamato a partecipare l’insieme della società non una sua parte: altrimenti non è modernizzazione, ma propaganda. In particolare, se il governo attuale vuole avere un impatto di lungo termine sulla modernizzazione digitale ha bisogno di coinvolgere il più possibile di forze favorevoli. Del resto, non è soltanto il governo che fa la storia in una faccenda così complessa, ma anche e soprattutto la società, l’economia, la cultura; le conflittualità sociali e le incomprensioni mentali sono parte del processo. La vita quotidiana negli uffici e nelle fabbriche, nelle città e nei villaggi, è fatta di speranza e di disperazione, di buona volontà e di bieco parassitismo. Ma alcune novità normative del governo possono aiutare molto: e molto ci si aspetta dalla riforma della pubblica amministrazione che potrebbe in effetti essere la premessa anche per una digitalizzazione coerente e possibile della burocrazia italiana. Perché una burocrazia riformata radicalmente non potrebbe più usare il computer per digitalizzare l’esistente, ma sarebbe costretta a progettare qualcosa di meglio. E le riforme avviate dal Miur, quelle del Mise, quelle annunciate dal Mef, a loro volta costituiscono il sostrato sul quale anche il digitale può trovare più spazio concreto. La comunicazione non è il motore, ma casomai il lubrificante. E l’informazione critica non è il suo opposto ma la premessa per il continuo miglioramento del motore.

Per questo, sarebbe bene abbandonare la logica partigiana e abbracciare una logica inclusiva, per il bene del paese. Cominciamo col riconoscere che i principali risultati ottenuti dalla politica nella modernizzazione digitale sono stati avviati da governi precedenti a questo. Il fenomeno delle startup cresce, ha raggiunto quota 5mila in questi giorni, è stato favorito da una legge del governo Monti. L’impostazione strategica dell’agenda digitale italiana (anagrafe, identità, fatturazione) è stata decisa con il governo Letta. L’eccellenza, un po’ datata, del digitale nel fisco risale nientemeno che a Bassanini. Per ora questo governo non ha avuto tempo di fare molti fatti in proposito. Ma abbiamo fiducia per motivi razionali. Nel frattempo, è meglio riconoscere che il principale risultato di connessione innovativa tra la vita politica e la rete, piaccia o no, è stato realizzato dal Movimento 5 Stelle. Ed è giusto valorizzare il grande risultato culturale della Dichiarazione dei diritti in internet portata a termine, dopo consultazioni e audizioni, dalla Camera dei Deputati e poi votata dalla stessa all’unanimità. Una policy per il bene comune è inclusiva, umile, aperta. Critica.

È chiaro che la partigianeria è una condizione strutturale della politica. Non avviene solo nel digitale. Questioni come la scelta di abbassare le tasse alle imprese o alle famiglie, questioni come il finanziamento pubblico della scuola privata, questioni come i diritti civili degli immigrati, questioni come la condivisione dei rischi bancari o la creazione di una politica economica europea tendono a essere trattate in modo partigiano. Non è detto che sia giusto, ma è comprensibile. Il problema è l’equilibrio. In Europa, al momento, si fa diventare tutto partigiano. E questo è un problema. Perché rafforza sia i costruttori che i distruttori.

Vedi anche due post recenti:
L’equilibrio tra aspettative e realtà. Il senso critico. La strategia dell’innovazione. Dalla ricerca di consenso alle decisioni strutturali
Questa volta è diverso. Agenda digitale senza alibi. Ed è positivo
E i più vecchi post:
We are the champions (2014)
Sembra facile essere semplici (sulla questione di cambiare l’Italia) (2013)
Perché è tanto difficile cambiare l’Italia… 10 ipotesi (2012)
E i commenti:
Dopo Venaria: basta storytelling, grazie
The [digital] day after
#ItalianDigitalDay: un Governo che parla di innovazione non vuol dire che governi l’innovazione
Il mio punto di vista su #ItalianDigitalDay
#ITALIANDIGITALDAY L’INNOVAZIONE CHE TRASFORMA È CULTURALE. IL RESTO È FUFFA
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10 Commenti

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  • La digitalizzazione di questo paese può passare solo attraverso un cambio profondo di mentalità.
    Il digitale è per definizione condivisione, di idee, di processi, di strumenti, perché solo così si supera la partigianeria e la tifoseria con cui siamo abituati a ragionare.
    Condivisione non vuole dire annullare il business o la competizione, significa capire i bisogni da ogni punto di vista, e trovare insieme soluzioni che funzionano. Che poi sono le strade più semplici.

    Ciao Luca.

  • Certo, Luca, è la storia a fare l’identità del paese. Ci sto. Piccolo problema: la storia del tempo presente verrà scritta, per definizione, nel futuro. Non può aiutarci a prendere le decisioni di oggi. Per quelle siamo condannati a cercare di orientarci meglio che possiamo, ma forzatamente in modo approssimativo. Come va l’Italia? Così. Ma così in meglio o così in peggio? Ci investo o emigro? Ci ritorno o me ne sto all’estero (il mio caso)? Dove la faccio la mia impresa?

    Ma hai ragione, la partigianeria ci fa perdere tempo in schermaglie assurde. Tu sei un giornalista famoso, e più di altri puoi contribuire a orientare il tono della discussione dando l’esempio. Ti propongo di darci qualche regola del pollice, più o meno così:

    1. Riconosciamo di non avere una visione elegante e condivisa in merito ai grandi temi del digitale e dell’innovazione (ce ne sono altri, ma mi fermo qui). Nessuno ha “la” risposta.
    2. Riconosciamo anche di essere tutti sostanzialmente d’accordo che alcune azioni hanno un valore positivo. Nessuno è contro open data, il movimento maker, i servizi pubblici online, un’ampiezza di banda decente, un FOIA italiano, anche se ci sono molte differenze nell’importanza che persone diverse attribuiscono ad azioni diverse.
    3. Ci impegniamo a cercare di incoraggiare le iniziative altrui, ANCHE SE QUESTE SI RIVOLGONO A TEMI CHE NON SONO I NOSTRI PREFERITI E ANCHE, ANZI SOPRATTUTTO, SE SONO UMILI E GRASSROOTS. Per esempio, se il Digital Champion di Lama Mocogno (ammesso che esista) fa un’iniziativa per installare Linux nei computer della scuola, cerchiamo di NON dirgli “non è questo il punto, bisogna fare XYZ”, o “dilettante! io lo facevo già nel 1947” o “ma l’hai letto il rapporto del gruppo di alto livello sul software libero del World Economic Forum del 2002?”. Cerchiamo magari di dirgli “beh, bravo. Prima questa cosa non c’era, e adesso c’è perché tu l’hai fatta”
    4. Ci impegniamo a essere generosi nel riconoscere il merito. A un presidente del consiglio (o, perché no, a un Digital Champion) che ti porta dei risultati, la reazione costruttiva è: bravo Monti, bravo Letta, bravo anche Renzi, daccene ancora!

    Ci stai?

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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