Luigi Zoja scrive un libro magnifico col titolo umilmente ambizioso Utopie minimaliste. Un percorso di maturazione per il lettore che allude a un programma di maturazione della società uscita da un secolo massimalista e dai decenni della sua banalizzazione.
L’utopia novecentesca era massimalista nel senso che voleva costruire un uomo nuovo senza forse tener troppo conto della realtà, a partire da modelli di società costruiti in astratto. Nota Zoja che mai come nel periodo in cui la protesta utopista del secolo scorso programmava di abbattere il sistema c’era stata tanta uguaglianza e giustizia sociale in Occidente. E osserva che dagli anni Ottanta invece l’ingiustizia è avanzata ovunque in Occidente senza che la popolazione riuscisse ad articolare una nuova protesta, come se non intendesse più cercare una nuova utopia, in un certo senso abbandonandosi a una sorta di cinismo, a un’incredulità nei confronti del progetto di un mondo migliore. Ma il problema non era l’utopia: era il massimalismo. «Gli errori dell’utopia non andrebbero risolti rinunciando all’utopia, ma rinunciando agli errori».
La sua proposta è l’utopia minimalista. «Una idea di uomo nuovo prodotta dall’esterno è poco praticabile e pericolosa. Una utopia minimalista dovrebbe invece favorire novità interiori all’uomo, valorizzando doti umane che già sono in lui». Un percorso di “saggezza” non un percorso di arricchimento o di raggiungimento di vantaggi misurabili: «Naturalmente la sincerità, la serenità, il superamento dell’ansia, la tenerezza, l’amore stesso, il fare bene le cose quotidiane non accrescono direttamente il Pil di una nazione. E proprio la precedenza data al Pil è una delle caratteristiche che hanno finito coll’accoumunare i diversi programmi politici, rendendoli sempre meno distinguibili e più estranei ai nostri bisogni istintivi». Ecco un video nel quale Zoja parla del suo libro:
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L’utopia minimalista è in realtà l’utopia nella sua essenza. Perché l’utopia autentica non si confonde con il programma politico e soprattutto non si pensa come programma politico irrealizzabile. L’utopia è una spinta ideale verso il miglioramento della qualità della convivenza; e nella contemporaneità ha assunto funzioni ulteriori man mano che la consapevolezza degli utopisti si è estesa alla necessità di migliorare la qualità dell’equilibrio ambientale.
Forse si può dire che, alcuni ecologisti hanno portato avanti una cultura della qualità ambientale contro ogni preconcetto e abitudine mentale, arrivando a diffondere i segni della loro utopia a larghe maggioranze di persone solo dopo aver affrontato lunghi decenni di lavoro pienamente utopistico. Ma non sarebbero riusciti se non avessero trovato il modo di collegare l’idea ecologista non solo al tema tecnico dell’equilibrio ambientale ma anche alla sua conseguenza interiore, mostrando l’ecologia come un percorso di miglioramento delle persone che consentiva di riconoscere nel percorso verso la consapevolezza ambientale anche una sorta di percorso di saggezza, un arricchimento culturale e una via per la ricerca della felicità.
Al centro dell’idea proposta da Zoja c’è il concetto di “individuazione” proposto da Carl Gustav Jung. «Più ancora che clinico, il suo valore è etico e sociale». Il processo di individuazione «ha per meta lo sviluppo della personalità individuale». La persona che diventa autore della propria vita, invece che vivere una vita il cui copione è scritto da altri.
Il vasto paesaggio interiore e politico che Zoja traccia con le sue argomentazioni mostra angoli di storia sociale ed intellettuale che appaiono profondamente godibili. Come la rivisitazione dell’esperienza del Che Guevara, di Borges e di altri grandi personaggi del Novecento. E come il ricordo del leggendario dibattito tra Michel Foucault e Noam Chomsky che una televisione olandese trasmise nel 1971. Eccolo qui:
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[…] http://blog.debiase.com/2013/10/luigi_zoja_utopie_minimaliste/ […]
Interessantissimo post. Non ho letto il libro di Zoja (ma lo farò) ma ho sentito il video e le sue argomentazioni che a livello di dati segnano una discontinuità negativa nelle differenze sociali a partire dagli anni ’80. Mi chiedo se questo storicamente non si possa leggere con una discontinuità che è partita in quegli anni a livello tecnologico con l’avvento delle tecnologie informatiche di massa. Tecnologie che solo una stretta fascia di popolazione mondiale ha saputo per reddito e cultura trarne profitto. Per dirla alla Kevin Kelly (e citando il suo libro) stiamo forse socialmente subendo “quello che vuole la tecnologia”?
Un comunque entusiasta (della tecnologia) essere umano minimalista