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Una buona notizia da Paola Caruso

La buona notizia è la fine di una cattiva notizia: Paola Caruso ha smesso lo sciopero della fame che aveva deciso per protestare sulla sua condizione di giornalista precaria.

Ne sono contento. Conosco Paola. Ero colpevolmente restato all’oscuro di questa storia. L’ho letta solo oggi. Ma non mi sembra giusto lasciarla passare senza un commento.

Che storia è stata quella di Paola? Tra la sofferenza del precariato, commentata da Gianluca e la triste bellezza di queste veloci solidarietà che si manifestano in rete, descritta da Massimo, si sono visti altri fenomeni come l’aggressività della vittima, lo stupore della burocrazia, la spietatezza della bilancia.

Ho conosciuto Paola, svelta e decisa, molto affezionata all’opportunità che le offriva il lavoro al Corriere e incuriosita dall’idea di aprire un blog su Nòva100. Forse ha perso affezione da allora per un posto che oggi le sembra un’eterna lista d’attesa (spero sinceramente di no). E forse – il che sarebbe certamente meno grave – può aver perso curiosità per Nòva100: un anno di cambiamenti tecnologici, economici e grafici sul web del Sole hanno rallentato molto i processi (spero che si riattivino presto).

Lo sappiamo. Il tempo degli editori è oggi il tempo dei tagli. E domani delle sperimentazioni a basso costo. E dell’innovazione senza scialare. Del resto, in generale, tutte le aziende in tutti i settori preferiscono offrire contratti molto “flessibili”. Ma il Fatto dimostra che c’è una possibilità di espansione economica nell’editoria giornalistica italiana basata sulla carta. Ci sono diverse iniziative che nascono e tentano di trovare il loro spazio. Ci sono molti nuovi mestieri: senza sicurezze, senza conforto. Leggerli come opportunità significa leggerli in una prospettiva storica avvertita. E non è facile mentre fai fatica a vivere la vita quotidiana.

Oltre all’immensa difficoltà economica, questo schiacciamento sul presente, senza passato senza futuro, è il male culturale più grave del precariato. Che impedisce di interpretarlo come andrebbe interpretato: in modo professionale, cercando di diversificare i “clienti” per trovare nella moltiplicazione delle fonti di reddito una sicurezza che nessuna di esse sembra in grado di garantire.

Ora che Paola è uscita dallo sciopero, con la solidarietà di chi ha vissuto anni da freelance, condivido la speranza che possa valorizzare la notorietà che ha ottenuto puntando non solo all’assunzione ma anche alla più razionale gestione della sua professionalità: allargare le fonti di reddito, moltiplicare i giornali con i quali lavora, razionalizzare la ricerca e la produzione… la speranza che la sua vita diventi quella di una freelance orgogliosa, non più quella di una precaria arrabbiata. La speranza che arrivi a una condizione per cui, di fronte a una proposta di assunzione si troverebbe costretta a calcolare la convenienza di accettare o rifiutare. La speranza, almeno quella, non deve fare sciopero!

Quanto ai giornalisti assunti… Beh, solo questo mi sento di dire: non è una colpa avere un contratto migliore di quello che hanno gli altri, ma può essere una grave responsabilità non pensare alla condizione del lavoro di tutti quelli che fanno i giornali e privilegiare nelle richieste agli editori soltanto l’interesse dei dipendenti. I giornali si fanno tutti insieme. E solo insieme si fanno bene. E solo facendoli bene potranno restare in piedi. A ben vedere, in una crisi come questa, siamo tutti precari.

Ciao Paola. Guarda quanti hanno pensato a te. Adesso basta, però! ok?

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  • Diversificare, magari si riuscisse a diversificare i clienti con cui lavori.
    Ma quelli che ti pagano regolarmente ti voglioni lì dalle 9 alle 18 anche se sei un cocopro (ossia lavori a progetto). Pure con un part-time storcono il naso.
    E quando ti opponi e dici sì, è meglio lavorare su più fronti, allora ti ritrovi a scrivere da casa, senza il bello del lavoro di squadra e passando la metà del tempo a rincorrere quelli che ti devono pagare, per ricordagli che far passare 3/6 mesi per saldare 300 euro sono forse un po’ eccessivi, e l’altra metà del tempo a trovare nuove splendide opportunità, mentre i ritagli di tempo sono dedicati a scrivere.

  • Luca, un freelance è un imprenditore. Un imprenditore non fa lo sciopero della fame quando non trova clienti. Uno che fa lo sciopero della fame per avere avuto la fortuna in un momento come questo di lavorare a contratto per il corriere della sera, non è un imprenditore. Difficilmente potrà fare il freelance con successo… poi le vie del signore, e quelle della solidarietà… si sa… 🙂

  • Condivido appieno quello che hai scritto, ma penso che sia veramente dura strutturare la propria vita su una serie di collaborazioni che potrebbero via via andare a cadere. Qualcuna resta, una in un certo periodo rallenta, quella forse resiste ancora qualche mese…vivi con l’angoscia.

  • Sono d’accordissimo con te, ma gestire la propria vita su collaborazioni che per un po’ ci sono, poi via via rallentano. C’è quella un pochino più stabile, quella che s’interrompe all’improvviso, là cambia la linea editoriale, quello chiude…un’angoscia.

  • Visto che è evidente che di trippa per gatti non ce n’è più sia per gli editori che per chi produce contenuti, oltre al continuo contenimento dei costi che – per ovvie ragioni – non può contrarsi indefinitamente, quali possono essere le strade percorribili per creare maggior valore nella distribuzione di notizie?
    C’è spazio per la sperimentazione? Ci sono risorse da destinarvi?
    Quali potrebbero esseree queste forme innovative di giornalismo?
    Giornalismo partecipativo? Iperlocale?
    I contenuti sono al passo con quanto cercano i lettori (odio usare il termine “lettori” riferito ai media digitali, brrr)?
    Rispetto a due-tre anni fa le testate on-line hanno aggiunto l’integrazione con i social media, ma la struttura è rimasta la stessa: articoli, sezioni, tempo. A volte anche luoghi. Perché non si prova, in aggiunta agli esistenti, con qualche progetto più innovativo?
    Occorrono nuove figure professionali che oggi non esistono ancora? Curatori? Community manager? Si dovrebbe partire da zero oppure fuori dai confini italiani si è già fatto qualcosa (a volte con successo, altre no) che si può prendere come punto di riferimento?
    Ma soprattutto – e lo dico rivolgendomi sia agli editori che ai giornalisti, precari e assunti – siamo disposti a metterci tutti in gioco?

  • Visto che è evidente che di trippa per gatti non ce n’è più sia per gli editori che per chi produce contenuti, oltre al continuo contenimento dei costi che – per ovvie ragioni – non può contrarsi indefinitamente, quali possono essere le strade percorribili per creare maggior valore nella distribuzione di notizie?
    C’è spazio per la sperimentazione? Ci sono risorse da destinarvi?
    Quali potrebbero esseree queste forme innovative di giornalismo?
    Giornalismo partecipativo? Iperlocale?
    I contenuti sono al passo con quanto cercano i lettori (odio usare il termine “lettori” riferito ai media digitali, brrr)?
    Rispetto a due-tre anni fa le testate on-line hanno aggiunto l’integrazione con i social media, ma la struttura è rimasta la stessa: articoli, sezioni, tempo. A volte anche luoghi. Perché non si prova, in aggiunta agli esistenti, con qualche progetto più innovativo?
    Occorrono nuove figure professionali che oggi non esistono ancora? Curatori? Community manager? Si dovrebbe partire da zero oppure fuori dai confini italiani si è già fatto qualcosa (a volte con successo, altre no) che si può prendere come punto di riferimento?
    Ma soprattutto – e lo dico rivolgendomi sia agli editori che ai giornalisti, precari e assunti – siamo disposti a metterci tutti in gioco?

  • ciao luca. questa frase non mi piace affatto:
    “…condivido la speranza che possa valorizzare la notorietà che ha ottenuto puntando non solo all’assunzione ma anche alla più razionale gestione della sua professionalità…”
    io condividerei un’altra speranza: che lo sciopero di paola (che ritengo personalmente un gesto eccessivo) porti a un ripensamento del sistema. che abbia una risonanza civile. messa così sembra che il suo gesto termini lì, nel proprio tornaconto personale, nell’ottenere notorietà con un gesto estremo.
    ed è anche per questo che ho trovato il suo sciopero straziante da un punto di vista emotivo (da precario a vita quale sono anch’io), ma privo di carica civile da un punto di vista razionale – come ho cercato di argomentare al riguardo altrove.

  • concordo assai con l’adesso basta… penso che l’effetto emulazione possa portare a generare dei mostri e non delle persone che come Paola l’hanno fatto con cognizione di causa…
    Per fortuna il futuro dell’editoria passa anche dal web e dintorni, e lì Paola o il precario di turno come il sottoscritto può far misurare ai suoi capi in SUV quanto vale il suo lavoro perché è tutto misurabile… il tuo articolo cartaceo da quanti lettori è statoletto e la marketta sul giornale di carta sai tu quanto ti ha fatto vendere? Mah…
    ps: ah speriamo che con le auto elettriche il pieno del SUV passi nelle tasche dei dipendenti 😉

  • Faccio questo mestiere da anni e non sono mai stata pagata per un articolo: breve, lungo, di colore, asciutto, politico, giudiziario, economico… Prima era perché dovevo fare la gavetta ora perché non ci sono i soldi. Dicono che non devo mollare. A parlare sono le stesse persone che in una redazione ci sono entrate per vie traverse. A parlare sono quei direttori che prendono milioni di euro dallo Stato (ossia noi) e buttano il loro stesso giornale sotto i piedi. A parlare sono quei giornalisti che hanno una pensione incredibilmente alta e non cederebbero nemmeno un euro, altro che: ‘siamo tutti compagni!’. Alcuni miei colleghi si sono pagati i contributi da soli per l’ottenimento del famoso tesserino (sono stata più fortunata questa volta); costretti ad aprirsi anche la p.iva. Sì, perché chi scrive, in Italia, vive da schifo, non ha diritto a nulla. Il più delle volte un pezzo costa a chi lo fa molto di più di quanto riceve. Solo in telefonate, abbonamento ad internet e acquisti di giornali se ne vanno i quattro centesimi che ti danno. E’ bene che si sappia che, sempre in Italia, la maggior parte dei giornali si mantiene grazie al ‘volontariato’ di migliaia di giovani e non. Persone che ancora credono nel mestiere del giornalista, ma che vivono di disistima perché arrivati vicino al traguardo il figlio di un giornalista o di un politico passa davanti. Allora mi chiedo: cosa farebbero tutti questi giornali se un giorno tutti noi scioperassimo?

  • Grazie del link:)
    Onorata:)
    Molte cose che volevo dire in tema le ho dette nel mio post e non mi ripeterò. Il gesto l’ho trovato fuori luogo per una serie di considerazione psicologiche prima e politiche dopo. Compreso leggere agghiaccianti commenti tipo; Paola che delusione ma come hai smesso! Dei grandi protestatori caa panza piena.
    Ora il gesto c’è, il tema è caldo. Un buon giornalista con quelle competenze e quelle motivazioni ne può tirare fuori una buona pubblicazione, una buona inchiesta – magari non proooprio con chi ha contratti annuali al corriere della sera. e magari esplorare quali sono situazione perseguibili penalmente.
    Che secondo me ce ne sono a mazzi.

  • Buongiorno a Luca e a tutti i commentatori,
    lavoro per un quotidiano locale da anni, la protesta di Paola l’ho sentita mia fin dentro le ossa. Sono anni che chiedo un articolo 2 (o un articolo 12) che mi garantirebbe un minimo di stipendio decente, ma le orecchie sono tappate.Vengo pagata a pezzo e ovviamente le tariffe non sono quelle del tabellario dell’Ordine, ma sono stabilite con motu proprio dal direttore della testata. Da noi i prezzi sono 5, 8 e 13 euro secondo le lunghezze, 13 euro sono per un pezzo oltre le 3000 battute. Per una pagina difficile mettere insieme più di 30-35 euro. Non sono previsti rimborsi spese. Per anni ho scritto 160-170 pezzi al mese e raccimolavo qualcosa tranne nei periodi in cui in pagina c’era molta pubblicità (esempio Natale) o se mi assentavo per qualche giorno. Ho la “responsabilità” di una pagina che corrisponde ad un territorio composto da tre comuni piccoli e uno più grande, quindi la mattina mi chiamano dalla redazione non per darmi indicazioni, ma per sapere cosa ho pronto da mettere in pagina, aperture, tagli, spalle, brevi… e insieme stabiliamo le misure. Ci vuole tempo a trovare le notizie e a scriverle, così è praticamente impossibile fare altro. La cronaca ti succhia come una sanguisuga. Faccio presente che onde evitare tagli, quando mia mamma è stata operata al femore io ho fatto la notte e poi tornata a casa ho acceso il pc per lavorare e cercare notizie come al solito. Vi assicuro che stare tutti i giorni a sperare che in pagina ci sia poca pubblicità “così ‘sto mese scrivo di più” non è esattamente esaltante.
    Luca conclude il suo post con una considerazione che per la prima volta leggo.
    “Quanto ai giornalisti assunti… Beh, solo questo mi sento di dire: non è una colpa avere un contratto migliore di quello che hanno gli altri, ma può essere una grave responsabilità non pensare alla condizione del lavoro di tutti quelli che fanno i giornali e privilegiare nelle richieste agli editori soltanto l’interesse dei dipendenti. I giornali si fanno tutti insieme. E solo insieme si fanno bene. E solo facendoli bene potranno restare in piedi. A ben vedere, in una crisi come questa, siamo tutti precari”.
    Grazie, grazie davvero, perché quello che io constato è solidarietà zero da parte dei redattori che però se non ci fossero quei rompiballe dei free lance/cococo/collaboratori loro col cavolo che le farebbero le pagine, specie quelle dei piccoli centri e dei territori della provincia. Ciascuno permette all’altro di esistere forse ci dovrebbe essere più aiuto reciproco, ma così non è. Questo rende particolarmente rischiosi i ricorsi al giudice del lavoro perché (e posso fare nomi e cognomi) i redattori assunti sono prontissimi a negare l’evidenza. E poi santo cielo ma perché per farmi pagare una cifra decente con un contratto umano devo andare in tribunale, perché, spiegatemelo, perché?
    Nel mio giornale è in corso una ispezione Inpgi e i due ispettori che mi hanno “interrogata” nel luglio scorso mi hanno detto di avere notato subito, con molto rammarico, che in redazione non c’è assolutamente solidarietà verso i collaboratori, anzi aleggia un certo dispresso come se fossero loro il probleme e non la risorsa.
    Ultimamente ho detto “non ce la faccio più, state ttagliando i compensi, non mi ci pago il telefono”. E la risposta sono state:
    – cambia lavoro;
    – se non puoi andare incidente/consiglio comunale/assemblea/etc, mando il ragazzetto neo laureato che ci va per due euro lordi e pure mi ringrazie;
    – arrangiati.
    Solo che io vi ho già dato dieci anni della mia vita.
    Per concludere, e mi scuso per la lunghezza, la storia di Paola per come è finita (con un ma si scherzavo? ma si volemose bene? non ho capito) mi lascia aperti alcuni dubbi, spero solo che il gran tam tam faccia discutere e riflettere. Anche perché su un blog di mamme si stava dicendo che in fondo Paola fa la giornalista ed “è sempre meglio che lavorare”…

  • 42 anni, giornalista da 15, moglie e figlio. Mai avuto un contratto regolare da giornalista. Sempre sfruttato come redattore ma trattato come freelance. Mai avuto il sostegno di colleghi e sindacato, ben pochi santi in Paradiso, tu ne sai qualcosa Luca. Faccio questo mestiere con gioia, incurante del corporativismo individalistico del mondo del giornalismo. Sono felicissimo della mia condizione di finto collaboratore in redazione 10 ore al giorno con posto di responsabilità senza mail e biglietti da visita a 1500 euro al mese (da cococo) ma, per favore, chi è più fortunato di Paola o di tutti noi taccia, è meglio. Con il buonismo fazioso e il cerchiobottismo forse si fa l’informazione ma non ci si riempie la pancia, basta per favore.

  • 42 anni, giornalista da 15, moglie e figlio. Mai avuto un contratto regolare da giornalista. Sempre sfruttato come redattore ma trattato come freelance. Mai avuto il sostegno di colleghi e sindacato, ben pochi santi in Paradiso, tu ne sai qualcosa Luca. Faccio questo mestiere con gioia, incurante del corporativismo individalistico del mondo del giornalismo. Sono felicissimo della mia condizione di finto collaboratore in redazione 10 ore al giorno con posto di responsabilità senza mail e biglietti da visita a 1500 euro al mese (da cococo) ma, per favore, chi è più fortunato di Paola o di tutti noi taccia, è meglio. Con il buonismo fazioso e il cerchiobottismo forse si fa l’informazione ma non ci si riempie la pancia, basta per favore.

  • Ho letto di articoli pagati 5, 10, 15 euro. Ho letto di persone sfruttate nelle redazioni come redattori ma configurate come freelance (e probabilmente pagate come distributori di volantini). Realtà in cui molti di noi prima o poi sono incappati. Non è però il caso di Paola, spero che di questo siamo tutti consapevoli. So quanto vengono pagate le collaborazioni al Corriere, soprattutto quelle per le sezioni tecniche. E mi sembra che nessun altro dei collaboratori di via Solferino abbia mai protestato. Se si è collaboratori esterni si vive da collaboratori. Il pezzo di Luca da questo punto di vista è ineccepibile. Questa dovrebbe essere la regola. I giornali che pagano 5 euro vanno fatti chiudere seduta stante. Ma anche coloro che accettano di scrivere un pezzo per 5 euro hanno le loro responsabilità. Collaboro con una rivista mensile di target femminile, con un quotidiano e con diverse altre realtà random. La rivista mi paga 250 euro lordi a servizio. Il Giorno un tempo mi offriva 15 mila lire ad articolo. Credo che sia evidente il perché io abbia smesso in fretta di collaborare con il Giorno e sia andato a bussare altrove

  • @ scribacchino, certo, hai ragione i giornali che pagano 5 euro a pezzi dovrebbero chiudere, ma chi li fa chiudere? Il Sindacato, l’Ordine che sanno perfettamente come stanno le cose? Ok aspetto fiduciosa. Per adesso l’Ordine ingrassa con le quote di iscrizione che arrivano anche dai collaboratori di questi giornali e manda negli stessi giornali gli studenti della scuola per gli stage estivi.
    Quanto alle collaborazioni, ne sto cercando altre, ma non è facile, anzi in provincia è difficilissimo.

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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