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Il filo intermentale

Ripulire dalle incrostazioni le menti e le comunicazioni tra le menti. Ci vuole il filo intermentale, dice Alessandro Bergonzoni.

Si rifletteva, con Bergonzoni in una serata alla Molteni (quella degli arredamenti, a Giussano) sulI’idea di progresso in termini di qualità. Ma che cosa occorre fare per
passare dall’epoca del progresso definito dalla quantità di beni
prodotti a una nuova epoca in cui si valuti il progresso in termini di
qualità? Tutto intorno a noi lo chiede. E noi fatichiamo a rispondere. I soldi, restano la banalizzazione più utilizzata per capire se si va avanti o indietro. Eppure non bastano più.

“Che cosa sai? Se non sai nulla non ci può essere qualità” dice Bergonzoni. “L’ignoranza è biadesiva, si attacca dappertutto. E’ nemica della qualità”.

Già. Prendiamo la Molteni, appunto. Produce tutto a Giussano e vende in tutto il mondo. Aggrega la sapienza indicibile dell’artigianato brianzolo, il design multinazionale di Norman Foster o Jean Nouvel, il discorso della qualità di successo che diventa storytelling e marketing, articolato da un sistema narrativo formato da artisti, critici, giornalisti, filosofi e uomini d’azienda, in modo che sia compreso e che educhi il pubblico. Se l’artigiano sa fare ma non sa dire quello che sa fare, occorre un pubblico che comprenda il valore di quello che l’artigiano sa fare. Dunque occorre cultura diffusa, una narrazione comune, che consenta alla qualità di essere riconosciuta e sviluppata.

La qualità non è più solo quella certificata dall’Iso. Lo standard è necessario come un must. Non fa la differenza. La qualità “narrativa” dei prodotti che riescono a farsi riconoscere un valore in più è meno facile da definire ma molto, molto più importante per stare al mondo, in un mondo globalizzato. Ne parla anche Aldo Bonomi quando chiama in causa le reti corte del distretto delle competenze incarnate nella storia di un territorio e le reti lunghe dell’internazionalizzazione.

Ma un fatto è certo. Se il territorio dal quale parte la narrazione della qualità e la sua fabbricazione non alimenta la propria cultura, diventa meno sofisticato e sottile, perde anche la sua capacità di entusiasmarsi per una cerniera ben congegnata o per una sedia fatta a regola d’arte. D’arte. Non si scappa: l’investimento più rilevante per un paese come l’Italia, che compete proprio su queste questioni, è l’investimento in cultura profonda, vera, viva. La sua parodia televisiva e la sua banalizzazione finanziaria non sono sufficienti.

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  • “Qualità” corrispettivo di “Profondità” nel dialogo sui nuovi barbari tra Baricco e Scalfari di cui ho letto anche in questo blog?
    Non potrebbe, forse, la via di uscita da questo empasse avere un iter, un metodo simile?

  • Non riesco ad attribuire all’artigianato tali qualità. La realtà di quel tessuto produttivo, fatto di esperienza, cultura locale e solo prodotto, in una sola parola di tradizione e autenticità, è antitetica con i requisiti minimi necessari per qualsivoglia narrazione. Per narrare non basta il territorio anche nel caso abbia una forte tradizione. Mancheranno sempre le capacità di stare al passo con un mondo che corre. Partire dal territorio inteso come saperi locali, ho l’idea che sia solo un modo per tamponare il vero problema, ovvero che il riconoscimento locale è sempre di ricaduta e mai di partenza. Prima va conquistato il mondo poi si racconta da dove si è partiti. Questa almeno è stata la direzione di chi ha avuto successo con tali strategie.
    Non a caso quando Aldo Bonomi venne qui a Macerata a luglio per incontro con Symbola, non riuscì a non trattenersi il disappunto per la piega che spesso prende tali forme di valorizzazione. E c’era anche una questione cardine sul disappunto, che spesso il territorio è divenuto sinonimo di strani intrecci pubblici privati, in mancanza dei quali la sostanza sparirebbe.

  • L’impresa può dare un contributo essenziale a un progresso basato sulla qualità e quindi al buon vivere insieme nel territorio. Riesce in ciò in quanto ha la possibilità di esprimere in sintesi, al meglio, i valori, le conoscenze, le tradizioni del territorio, e di portarli oltre confine. Così facendo, genera reddito, occupazione e riproduce, potenziandoli, i valori e le relazioni del territorio. La cultura imprenditoriale, come la cultura diffusa, è un bene relazionale che può ancora imparare molto dalla Rete e dai social media in termini di visione, condivisione e azione 🙂

  • L’impresa come attore sociale non può esser caricato di troppe responsabilità che non le competono. Quando si parla di sviluppo, valore, benessere e tan’altro, è necessario ponderare impegni dichiarati e possibilità effettive di onorarli. Bisognerebbe abbassare un pò le aspettative e chiedere alle imprese quello che le imprese possono dare. Altrimenti si arriva a quella situazione per cui divenendo l’impresa classe dirigente, poi non ha i mezzi per assumersene gli oneri, almeno ora.
    Quindi è giusto che l’impresa persegua il profitto, e che lo faccia utilizzando tutte le strategie possibili e immaginabili ma senza creare miti di citizenship governance.

  • @ Emanuele: sono d’accordo con te sul fatto che l’impresa sia attore economico prima che attore sociale, d’altra parte osservo con piacere che in molte imprese vincenti la prospettiva economica (cosa è conveniente fare), la prospettiva giuridica (cosa è lecito fare) e la prospettiva sociale (cosa si può fare…) tendono a coincidere…

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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