Le sofferenze delle vittime della violenza sono incommensurabili con ogni altra considerazione. Minori, donne, persone deboli che sono fatte oggetto di violenza stupida, cattiva, reiterata, vanno difesi. In città ci sono molti posti dove i minori è bene che non vadano. I genitori lo sanno e lo insegnano ai figli. Su internet ci sono altrettanti posti dove è bene che i minori non vadano. Ma i genitori non sembrano in grado di proteggerli online. Del resto tutto questo è generalizzato: i deboli online non sono protetti dai maleducati violenti se non sono capaci di usare gli strumenti, di bannare i cattivi, di coalizzarsi tra persone civili, di costruire piattaforme alternative o semplicemente se non riescono a mettersi d’accordo per incontrarsi al sito del museo o del giornale. Ci si accorge che i politici, le loro famiglie, il loro network sociale sono particolarmente adatti a fare da bersaglio dei maleducati violenti. I casi di orribili sofferenze si moltiplicano. Si forma un’onda emotiva nei media. Si forma una sorta di consenso intorno alla convinzione secondo la quale “qualcuno deve pur far qualcosa”. Quindi i politici decidono che è il momento giusto per fare una legge contro il cyberbullismo e di farla per fermare tutta la maleducazione violenta in rete. Costi quel che costi (Sole).
La legge approvata al Senato è stata cambiata e generalizzata alla Camera con una discussione distratta e tardiva. Il testo è incredibilmente impreciso. E ora tornerà al Senato. (Qui il testo originale e il nuovo).
Qualcuno è convinto che questo testo fermerà i maleducati violenti. Altri considerano questo testo come un insieme di buone intenzioni senza sostanza concreta. Molti lo vedono come la premessa di un disastro censorio in rete (BoingBoing). Di certo, il testo non si capisce.
Il problema è che le leggi fatte per la rete sono difficili. Agiscono su un sistema complesso. Le loro conseguenze vanno valutate come si farebbe per un intervento su un ecosistema. Le conseguenze dirette possono essere meno importanti di quelle indirette. La Dichiarazione dei diritti in internet approvata all’unanimità dalla Camera lo scriveva chiaramente. Ma i deputati sembrano averla sottoscritta e dimenticata.
Secondo i più critici, la legge consente a chiunque si senta in ansia per qualcosa che è scritto online di ottenerne la rimozione senza alcun contraddittorio, pena una sanzione da decine o centinaia di migliaia di euro per il gestore che non rimuova (senza distinzione tra le grandi piattaforme e i piccoli blog). Secondo i difensori della legge tutto questo armamentario sanzionatorio non esiste e non si applica. Ed è strana questa doppia lettura di una legge appena fatta. Secondo i combattenti contro il cyberbullismo però questa legge deve pur avere una sua forza, quindi non si vede perché approvarla se poi non sanziona nessuno. Alla fine, i cittadini che non capiscono quale sia l’interpretazione corretta si divideranno in due categorie: quelli che stanno sempre al confine con l’illegalità, per maleducazione, per stupidità, per ignoranza, per cattiveria, continueranno come prima; quelli che non vogliono grane, si autocensureranno drammaticamente per non incorrere nelle possibili ancorché fantomatiche sanzioni; quelli che gestiscono piattaforme sociali piccole come i commenti dei blog o grandi come i social network si attrezzeranno per eliminare tutto ciò che può essere controverso in modo semiautomatico.
La rete si impoverisce ogni volta che viene attraversata da decisioni emotive, unilaterali, poco meditate. E torna ad arricchirsi soltanto quando qualcuno propone un servizio migliore, nel quale le regole sono più intelligenti. In questo caso occorrono più piattaforme sane, con informazione di qualità, metodi di comunicazione rispettosi. È del tutto possibile progettarle. Quando ci saranno, le piattaforme attuali sembreranno i bassifondi delle città dove prevale la violenza e la maleducazione. Non sarà la legge speciale per il web a salvare il web: sarà una sensibilità civile capace di ispirare chi vive nell’epoca della rete, chi progetta i nuovi servizi, chi li usa in modo consapevole. Imho.
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