L’Ocse porta avanti una survey sulla qualità dell’insegnamento e le sue conseguenze sullo sviluppo (Talis Oecd). Nella pubblicazione Education Today 2013, nella quale sono riportati anche alcuni risultati della ricerca, l’Ocse segnala:
Substantial differences exist between countries in teacher beliefs about how teaching should be delivered: In most countries teachers see their job as helping students actively to develop and construct their knowledge rather than concentrate on transmitting content only (among the TALIS countries, the exception is Italy where only a minority endorses this view).
A quanto pare, dunque, gli insegnanti italiani si fanno notare per la convinzione secondo la quale l’insegnamento è la trasmissione di conoscenze piuttosto che la coltivazione delle capacità degli studenti di alimentarsi di conoscenze.
Le eccezioni ovviamente non mancano. Su questo blog ne emergono molte. Gli insegnanti eccezionali sono quelli che hanno storicamente portato avanti l’innovazione concreta nella scuola italiana, al di là delle grandi e controverse riforme decise dall’alto. La maggioranza più “silenziosa”, però, secondo l’Ocse, ha un approccio più conservatore e meno orientato alla liberazione delle energie culturali degli studenti.
Si può scommettere che anche in futuro sarà così: più che dall’alto l’innovazione nascerà dal basso. Non sarebbe concettualmente sbagliato se si potesse sperare che l’innovazione di pochi contamini il sistema, ma purtroppo – se è vero che il contesto è poco ricettivo come dice la ricerca dell’Ocse – questa contaminazione sarà rallentata. Una politica illuminata, in questo senso, resta un’opzione molto importante.
Talis qualis all’università
Credo che anche una politica illuminata, in questo senso, non sia sufficiente. Ma i cittadini-studenti come si muoveranno? Saranno in grado di cambiare mentalità? Saranno capaci di investire su se stessi senza aspettare dall’alto riforme improbabili? Una mia professoressa illuminata diceva: descolarizziamo la società..
E se questo atteggiamento conservativo che caratterizza il nostro Paese non fosse estraneo al contemporaneo predominio del manuale a stampa, che in Italia totalizza fatturati doppi, tripli o quadrupli rispetto agli altri Paesi?
( http://www.garamond.it/blog/index.php/2012/02/03/131/ )
L’impronta trasmissiva della pratica didattica non potrebbe essere favorita e incentivata dal modello del “sapere in copia” e della “ripetizione” tipico del manuale chiuso e a stampa?
E la Rete, con l’impulso al remix digitale di contenuti aperti e collaborativi, non è proprio il fattore chiave per un innovazione vera che altrove è già praticata, proprio nel dare strumenti e occasioni di costruzione autonoma e personalizzata della conoscenza?
Concordo sul fatto che la fissazione del sistema scolastico sul manuale possa pesare su questo genere di atteggiamento. Però temo che confidare sulla rete come fattore chiave di cambiamento equivalga a sperare nella televisione per il superamento delle difficoltà della democrazia.
La rete è (può essere!) uno strumento importantissimo e salutare, ma se manca la disponibilità a mettersi in gioco nessuno strumento ci salverà. Ho l’impressione che siano tanti gli insegnanti che continuano a preferire il “comodo abbraccio” della nozione verificabile immediatamente senza nemmeno la necessità di comprenderne le implicazioni (o comprendere se siano state comprese), allo sforzo della comprensione e dell’elaborazione personale.
L’esempio più immediato che mi viene in mente sono la matematica e la geometria: seguire mio figlio (io non sono un insegnante anche se ho diversi legami con la scuola) mi mostra troppo spesso che manca, sotto la regola appresa pedissequamente, la comprensione delle sue ascendenze, del suo significato e delle sue ricadute. E sto facendo riferimento alla scuola primaria: temo cosa potrò riscontrare nei prossimi anni!
Mi pare che sia frequente che questa comprensione sia assente (o quantomeno ridotta) in primis tra coloro che dovrebbero aiutare a svilupparla
In effetti tale è il modello didattico tuttora vigente in Italia, riprodotto quindi negli spazi scolastici che prevedono UNA cattedra con UN docente (attivo) che somministra UNA “lezione frontale” ad un certo numero di studenti (passivi).
Va sottolineato come su questo si innesti a sua volta la funzione passivizzante – in tutto parallela e di analoga modalità – che la Tv ha svolto e sta svolgendo nella società italiana.
Per buona sorte vi sono delle (rare) eccezioni, che testimoniano come il modello interattivo contemporaneo sia altro, come diverso sia il coinvolgimento e diversissime siano le attitudini che in tal modo vengono stimolate.
una politica illuminata e consapevole non è importante: è fondamentale. Bisogna cominciare dalla formazione e selezione dei nuovi docenti, per selezionare le persone capaci nella relazione, creative e formate nelle tic, sbloccare i pensionamenti, cambiare retribuzioni e pratiche
(cross-posted on g+ da un messaggio di +Maurizio Codogno)
Bisognerebbe anche misurare la volontà/desiderio degli studenti di lavorare in tal senso. Dagli studenti che vedo io, l’analisi critica è molto meno in voga della facile omologazione. Anche perché nel mondo italico delle clientele e corruttele l’analisi critica serve una cippa, conta avere il genitore o l’amico giusto.
Invece di sparare sul pianista, cominciamo a far fare dei corsi ai primi insegnanti della vita, noi genitori. Sapete quante volte un genitore rimprovera l’insegnante quando dà un brutto voto allo scolaro?
Iniziamo a misurare con qualche fico bubbolo di test OECD la nostra efficacia nel fare il nostro mestiere e a preparare un mondo migliore. Perché il pesce puzza dalla testa, non scordiamocelo mai.
L’università ha risvegliato in me la capacità di alimentarmi di conoscenze e io ho sempre cercato di fare lo stesso con i miei studenti. Fare tutto questo, per me, è molto più facile, oggi che ho a disposizione tante competenze e tecnologie. Dubito però che il mio Liceo si sarebbe messo in moto, se lo stimolo all’innovazione non fosse venuto soprattutto dall’esterno. Anche adesso siamo una minoranza a essere felici delle classi con LIM e Netbook, del Registro elettronico etc..
Ahimè, molto vero…
Ma la causa non è da ricercare solamente nella poca apertura mentale, c’è un’altra dinamica sulla quale non si è mai riflettuto: la maggior parte di chi insegna NON E’ MAI USCITO DAL CIRCUITO DELL’ISTRUZIONE.
Facciamoci caso: il caso tipico è quello del docente che nella vita ha “fatto solo scuola”! Il ciclo è scuola – università – scuola. Come possono fare, queste persone, a pensare qualcosa di diverso? Avere “subito” una certa scuola è elemento di contagio per il quale si è poi portati ad erogare quanto subito. Se non altro perché è l’unica cosa che si conosce.
Dunque: sarebbe auspicabile che si incentivassero percorsi capaci di far venire in contatto i docenti “col mondo esterno”, che so periodi di stage aziendale (soprattutto per gli insegnanti di materie tecnologiche) o comunque esperienze in contesti e con mansioni diverse. L’esperienza acquisita sarebbe un preziosissimo bagaglio sia in fase di progettazione didattica che di esercizio della didattica.
Carlo. Sono assolutamente d’accordo con te. Una delle principali causa di tutte le cause dei problemi della scuola è proprio il suo isolamento. Intendiamoci, per certi veri un pò è anche necessario. Ma non quando (come da noi) ti spinge così lontano dalla realtà.
Questo è il quarto commento inviato ad alcuni suoi post … spero non venga censurato anche questo come gli altri.
sul tema se ne discute da diversi anni su convegni e dibattiti, ad es.nel 2006 si parla di docenti immigrati digitali ,gutenberghiani, e iniziavano i primi Teacher Day in Italia dove si enfantizzava il ” leraning by doing” e della mancanza di appeal della scuola sulle nuove generazioni di nativi digitali, fino alle ultime proposte di una scuola digitale… il tutto si scontra spesso con una resistenza, da parte di molti docenti,motivata dalla convinzione che l’approccio tradizionale del sapere sia quello più efficace
non ho censurato nessun suo commento.. prima di affermare una cosa del genere, per favore, verifichi se ha inviato correttamente i suoi eventuali precedenti commenti
“La rete è (può essere!) uno strumento importantissimo e salutare, ma se manca la disponibilità a mettersi in gioco nessuno strumento ci salverà”
Trovo questa riflessione azzeccata. Mettersi in gioco però può prendere varie forme. Significa anche, a volte, depotenziare il racconto, il divenire, fintanto che non si trova un po’ di terra ferma su cui posare i piedi, pena la divulgazione prematura di semi-lavorati che non necessariamente si adattano a tutti i processi ovunque, e talvolta spaventano più del dovuto facendo perdere tempo in inutili polarizzazioni. Bisogna spendere ore e giorni a studiare cosa serve nello specifico e lasciare che siano i fatti della vita a parlare. Aderire a un’idea generica di innovazione sospinta dalla tecnologia (overhead) può bastare? Qui non si tratta, più e solo, di spinte dal basso o dall’alto, ma di qualità legata al contesto e della sua genuina percezione come primo grado di movimento progressivo. C’è questa bella intervista a Marc Augé su Lettera 43 che ti segnalo, Luca.
Può sembrare un tantino fuori tema. Ma se si salta a piedi pari la menzione dell’onnipresente ‘Cav’ (pour une fois :), che forse è lì, a partire dal titolo, per attrarre audience diversamente attenta, e si fa caso invece al resto, a quella critica del «qui e ora» che ha sostituito la storia, al racconto che ha superato la realtà e all’auspicio che si rifondino ” tutti i programmi di ‘educazione’ e di ‘istruzione’ rimettendoli al giusto posto nella società, cioè il più importante”, si può ritrovare il senso qualitativo del concetto di ‘dose’: “la giusta misura fra immaginazione e argomentazione”, il ritorno “dalla comunicazione alla relazione”, la “scala umana”. Non tutti i manuali saranno da buttare, o no? E non tutta l’informazione peraltro va a buon fine (a volte è persino un fine in sé).
Il “progresso non è mai lineare” e c’è da “rodersi il fegato” ;), sì, e anche molto. Questa non è una novità.
Avevo dimenticato il link
http://www.lettera43.it/politica/marc-auge-su-politica-e-media_4367583546.htm
uscire dalla scuola? no di sicuro, a cosa servirebbe, io l’azienda la conosco, ho amici, un coniuge… è un’illusione, nel proprio mestiere bisogna starci dentro e crescerci, ricordando sempre però che tutto cambia, che non bisogna mai smettre di ricercare, cambiare. Il fatto è che dopo la prima selezione, già molto criticabile, sei lascaiato a te stesso… e alla classe: puoi anche fare nulla, quel che vuoi, cambia poco. Non c’è lavoro condiviso, confronto, sfida, rischio, investimento. Molto comodo “non” gestire così le cose! Ma comunque lo ribadisco: insegnare non è un’attività collaterale, non l’arricchisci facendo dell’altro!
annamaria ciao. ti rispondo perche avverto che nel tuo commento c’è passione e desiderio di fare bene. nn si diceva che l’insegnante deve anche fare dell’altro. si stava parlando di forme (qualsiasi) di insegnamento/educazione che portino di più la realtà nella scuola.contatti con l’esterno
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