Il grande reportage-storico di Scott Anderson con le foto di Paolo Pellegrin, della Magnum, è stato pubblicato dal New York Times Magazine ed è disponibile online. Una traduzione in italiano è stata riportata ieri su Repubblica.
È un grande pezzo di giornalismo. Con qualche angolo che va oltre. Come quando Anderson trova le parole per descrivere “la cultura del piagnisteo, dove a giocare un ruolo centrale non era quello a cui aspiri, ma quello a cui ti opponi”. In inglese suona più pulita:
One of the Arab world’s most prominent and debilitating features, I had long felt, was a culture of grievance that was defined less by what people aspired to than by what they opposed. They were anti-Zionist, anti-West, anti-imperialist. For generations, the region’s dictators had been adroit at channeling public frustration toward these external “enemies” and away from their own misrule.
Per la politica mediorientale la costruzione del nemico esterno è fondamentale. Ma la cultura deresponsabilizzante del piagnisteo ha una diffusione più ampia. La definizione di identità politiche non in base a ciò che si vuole costruire ma a ciò che si vuole abbattere è molto frequente. Non è soltanto una strategia di lungo termine per alcuni movimenti radicali. Sta diventando una tattica per molti movimenti che si propongono di governare. E sta diventando uno strumento per cercare facile consenso. Con il supporto di media che vedono come questa cultura del piagnisteo sia più facile da “vendere” della cultura dell’impegno.
Il punto è che è difficile ritornare dal piagnisteo alla costruzione. Dalla rottamazione alla policy che crea futuro ci passa un cambiamento fondamentale e difficile: per cui prima si cerca il consenso di chi è contro, poi si cerca il consenso di chi è a favore.
La cultura del piagnisteo è paradossalmente gratificante immediatamente: ci si aggrega per combattere qualcosa di negativo. Se non ci si riesce, almeno si è fatto qualcosa. La cultura della costruzione è impegnativa subito e ottiene risultati incerti nel tempo lungo. Se la frustrazione è grande e i risultati della policy costruttiva sono lenti, la coalizione di chi è “contro” può avere buon gioco.
Tutto questo è pessimo. E genera problemi per molto tempo. Si ha l’impressione che non solo il Medio Oriente sia invischiato in questo genere di difficoltà.
Il dissenso di chi è contro è un minimo comune denominatore facile da costruire: basta odiare chi ha il potere. Il consenso di chi è a favore è una difficile somma di obiettivi e punti di vista diversi: richiede un atteggiamento inclusivo, orientato a definire gli obiettivi in modo che possano essere raggiunti, capace di gratificare molti e non soltanto i capi, capace di moltiplicare i protagonisti del cambiamento e non di monopolizzare l’idea della trasformazione in un ristretto cerchio di persone. Altrimenti quelle persone sono un bersaglio troppo facile per la cultura del piagnisteo e per la coalizione degli oppositori.
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Montale
Secondo lei può esserci una correlazione tra cultura del piagnisteo ed educazione ricevuta? E per educazione ricevuta intendo educazione religiosa, scolastica, familiare.
beh direi proprio di sì…
Condannare il dissenso in quanto tale è sciocco e pericoloso.
Il progresso scientifico culturale e morale dell’Occidente è nato dal dissenso.
I diritti dei lavoratori e il voto alle donne sono stati tacciati di essere solo uno sterile piagnistei.
Vorrei sottolineare che le parole sono importanti: il piagnisteo è proprio un lamento fine a se stesso. La critica sociale o il conflitto non sono il piagnisteo, perché in qualche modo partono da una ribellione e, a differenza del piagnisteo, si dotano di un’analisi “costruttiva” su quello che si può ottenere ribellandosi. Quando quell’analisi è sufficientemente solida, le conseguenze delle ribellioni possono diventare vere e proprie rivoluzioni: e si deve dire che “quando ci vuole, ci vuole”.. Ma bisogna anche dire che non è questa l’unica strada per cambiare una situazione. C’è anche l’innovazione…
Vorrei anche ricordare il pensiero di Sciascia sui professionisti dell’antimafia. Chi organizza il dissenso offre certamente un contributo al cambiamento. Ma chi fonda tutta la sua carriera sull’organizzazione del dissenso, alla fine non ha interesse a che la causa del dissenso venga davvero abbattuta…
infine, la prego di osservare che il dissenso in queste pagine è più che presente…