Questo è un post di riflessioni. Aperte. Inconcluse. Nella migliore delle ipotesi, utili per ulteriori approfondimenti.
Un importante dibattito si è aperto in seguito alla pubblicazione del paper: “The COVID-19 infodemic does not affect vaccine acceptance”, scritto Carlo Valensise e altri. In particolare, una prima risposta è arrivata con il paper: “Comment on “The COVID-19 infodemic does not affect vaccine acceptance””, scritto da Riccardo Gallotti e altri.
La lettura dei due paper è piuttosto breve, lineare e dritta al punto. Credo che non abbia bisogno di ulteriori commenti. Si mette in discussione l’idea che un’infodemia possa avere un impatto sui comportamenti nei confronti dei vaccini.
L’importanza dell’argomento è tale che proprio a partire da questo anche acceso dialogo scientifico si può tentare di costruire una visione ulteriore della questione del rapporto tra i media sociali digitali e i comportamenti degli umani. Lasciando ad altri l’importante compito di analizzare i diversi aspetti scientifici e soprattutto statistici del confronto, vorrei tentare di trarre da queste letture lo spunto per una strada di ricerca potenzialmente fruttuosa e innovativa. Perché il mio scopo non può essere quello di discutere le ipotesi scientifiche e i dati che le avvalorano, quanto quello di elaborare una strategia per favorire la maturazione di un’ecologia dei media più moderna e più sana di quella che si è formata con il successo dirompente e ingenuo delle grandi piattaforme che oggi dominano la scena. Il tutto a favore del benessere delle persone. Che non può essere disgiunto dalla qualità dell’esperienza culturale che si vive in rete.
La domanda fondamentalmente che mi pongo è: esiste un mondo mediatico diverso dal mondo reale? Ciò che si crede nel mondo mediatico può essere diverso da ciò che si crede nel mondo reale? C’è un modo per leggere questa eventuale differenza? In generale, come si studia la relazione tra il mondo mediatico e il mondo reale? E c’è una differenza cognitiva o semplicemente una convivenza tra i due mondi?
Premetto che penso che il mondo mediatico sia semplicemente parte del mondo reale e ne alimenti la complessità essendo decisivo per la definizione delle nicchie eco-culturali nelle quali evolve la vita umana: gli umani evolvono nello spazio che si costruiscono nell’ecosistema.
Che siano “mondi”, per modo di dire, è possibile. Il mondo reale è quello nel quale si svolge l’esistenza degli esseri viventi. Il mondo mediatico è quello nel quale vive la conoscenza degli esseri umani – cioè il sistema nel quale si crea, si comunica, si elabora, si archivia, si ritrova, la conoscenza, a sua volta organizzata da tecnologie e narrative. Ma esiste una differenza tra i due mondi oppure no? Si può esistere in un contesto e conoscerlo in un altro contesto? Filosoficamente questo si può dare per esempio riferendosi alla differenza tra l’esperienza del dialogo orale nel quadro della vita vissuta e quella della trasmissione di conoscenza attraverso la scrittura, a partire dall’originaria discussione platonica (tra gli infiniti riferimenti c’è anche questo). Pragmaticamente si può forse leggere questa differenza nella distanza che c’è tra il comportamento delle persone che dedicano tempo e attenzione a un contesto mediatico ma non necessariamente lo considerano tanto rilevante da cambiare credenze e modi di agire in relazione a ciò che apprendono in quel contesto. Che questa distanza esista è possibile: ma è una distanza definitiva o storicamente interpretabile?
Un’ipotesi “razionalista” suppone che l’influenza del mondo mediatico sulla realtà sia dubbia e avvenga eventualmente attraverso le libere decisioni delle persone che ritengono rilevanti le informazioni cui accedono. La razionalità, libertà, competenza dell’audience è data per scontata. Il mondo dei media diffonde informazioni ma chi decide che cosa farne sono le persone che operano le loro razionali valutazioni.
Questo genere di approccio giustifica tutti i comportamenti dei produttori mediatici nei contesti caratterizzati da libertà di espressione, perché le conseguenze di ciò che i produttori mediatici mettono in circolazione non sono direttamente connesse a ciò che dicono ma sono decise da chi li ascolta.
Un’ipotesi “tribalistica” suppone che le persone siano aggregate in gruppi di valori comuni. Nessuna informazione riesce a smuoverli o a far loro cambiare idea. La forma moderna di questa condizione si sviluppa nelle echo-chamber. Le persone se ne stanno nelle loro echo-chamber, soddisfatte dei loro “bias” di conferma, circondate da persone che la pensano come loro, orientate a rifiutare ogni altra idea. A quel punto dedicano molto tempo e attenzione al mondo mediatico ma questo a sua volta non fa cambiare loro idea o comportamento. Dunque alla fine è irrilevante.
In entrambe queste ipotesi, la distanza tra il mondo mediatico e quello reale è importante. In queste ipotesi, si direbbe che i media non influenzino direttamente le opinioni: o le persone si fanno le loro opinioni dopo avere visto ciò che si dice sui media oppure partono con le loro opinioni e non le modificano qualsiasi cosa trovino nei media.
Esiste ovviamente una terza ipotesi, completamente diversa e abbastanza ovvia: quella che sostiene che le persone sono effettivamente influenzate dall’ambiente mediatico. Quello che trovano sui media guida i comportamenti e le opinioni. Sicché i media possono essere luoghi nei quali si esercita la leadership, la collaborazione oppure la manipolazione delle coscienze. I pubblicitari e i politici sono sicuri che questa sia l’ipotesi giusta, a giudicare dagli investimenti che dedicano ai media per far circolare le loro proposte.
Ma queste tre ipotesi sono piuttosto schematiche. Probabilmente le persone non sono mai soltanto una cosa o soltanto un’altra. Le persone vivono contemporaneamente in una dimensione individuale e comunitaria o addirittura collettiva. Vivono in parte del momento nel quale si trovano, in parte nella congiuntura o nel ciclo che caratterizza i loro anni, in parte in dimensioni strutturali, ripetitive, millenarie: è la pluralità delle durate del tempo sociale che si legge nella storia.
Di conseguenza: la velocità di trasmissione delle informazioni è diversa dalla velocità di reazione delle persone alle informazioni. Ci sono quadri narrativi a scartamento temporale ridotto, ciclico e strutturale. Ci sono strategie di agenda setting, framing, priming. Ci sono condizioni nelle quali le persone pensano seguendo un ragionamento controllato anche se il più delle volte – come insegna Daniel Kahneman – pensano seguendo l’intuizione, cioè la prima cosa che viene loro in mente, oppure addirittura l’istinto. E la complessità del sistema mediatico è tale che per vivere costantemente nella condizione critico-razionale occorre un impegno enorme, per restare sempre nella stessa echo-chamber occorre escludere una tale quantità di altre sollecitazioni da sconfinare nella paranoia, per essere totalmente proni alla manipolazione occorre essere del tutto privi di difese critiche. Probabilmente le singole persone non sono mai soltanto in una di queste condizioni per tutta la vita.
Ma che significa dunque tutto questo? I media modificano la realtà, oppure la realtà modifica i media, oppure tra le due dimensioni non ci sono relazioni? Le tre risposte sono probabilmente tutte valide, in circostanze diverse.
E dunque un’infodemia può essere considerata contemporaneamente in grado e non in grado di modificare i comportamenti sui vaccini. Nel paper di Valensise e altri si discute l’ipotesi che l’infodemia possa cambiare i comportamenti delle persone. L’infodemia è una quantità enorme di messaggi su un argomento preferibilmente controverso e importante come la pandemia, nel cui ambito si trovano informazioni corrette e notizie false, anche per la presenza di organizzazioni impegnate a diffondere disinformazione e a sfruttare la situazione per perseguire i loro fini politici o economici. Valensise e altri osservano che durante la pandemia c’è stata una potentissima infodemia e si sono domandati se questa abbia cambiato i comportamenti delle persone nei confronti dei vaccini. Hanno cercato una risposta in una serie storica di dati molto ampia riguardante un po’ più di anno che offre uno spaccato dell’atteggiamento di accettazione o rifiuto dei vaccini nella popolazione.
Nel commento di Gallotti e altri, oltre agli argomenti statistici che appunto non sto a discutere, emerge un punto di domanda importante: un anno seppure abbondante può essere la durata adeguata per analizzare profondi cambiamenti culturali? Questa domanda emerge da una fonte culturale nella quale entrambi i gruppi di scienziati che hanno prodotto questi due paper apparentemente contrapposti possono trovare un terreno comune. Dal quale ripartire. Perché può benissimo esserci poca correlazione nelle serie storiche della durata di un anno che riguardano un’infodemia e il comportamento delle persone sui vaccini, posto che si tratti di argomenti sui quali la reattività delle persone è lenta. E si può aggiungere che se si potesse provare una correlazione nel lungo termine non necessariamente la si vedrebbe anche nel breve termine, perché questi cambiamenti potrebbero essere di quelli che avvengono non in un continuum ma piuttosto a salti paradigmatici.
Il dibattito ha il merito di mettere in discussione dei pregiudizi: che ciò che circola sui media digitali abbia un effetto semplice da leggere, lineare; che non abbia alcuna importanza; che i rischi riguardino solo le persone poco consapevoli. Soprattutto mette in discussione l’idea che si possa separare la discussione sui messaggi che circolano in rete dalla struttura ambientale nella quale circolano. Tutto è meno lineare di così.
È chiaro che con il digitale la complessità dell’ecologia dei media si è accresciuta, in apparenza. Perché molta parte delle comunicazioni si è concentrata nel mondo digitale. Anche prima era complessa, molto probabilmente, ma in larga parte sfuggiva all’analisi poiché si svolgeva su media precedenti alla convergenza, separati e non comunicanti (i network sociali del vicinato e del lavoro, la famiglia e le associazioni, i media analogici…). La connessione di tutto con tutto nel digitale probabilmente aumenta la complessità percepita. E anche la consapevolezza del fatto che si può fare molto per modificare la situazione. La bellezza del mondo digitale sta proprio nel fatto che se lo si comprende lo si può – e vuole – modificare.
Nel mondo digitale, non si scrivono più soltanto i messaggi, ma anche i mezzi. L’architettura dei mezzi diventa decisiva per la qualità delle comunicazioni. La responsabilità di chi lavora nei media non è soltanto quella di scrivere e ricevere messaggi socialmente costruttivi, ma anche di scrivere mezzi socialmente costruttivi. Pensando al breve termine. Ma anche pensando al lungo termine.
Un’infodemia è una sorta di ambiente mediatico nel quale circola ogni tipo di messaggio. Il singolo messaggio può avere un impatto limitato nel tempo o non averne affatto. L’insieme dell’infodemia rischia di avere un impatto di lungo termine. Se come un fiume in piena trova resistenza ma poi improvvisamente sfonda gli argini e favorisce un salto di paradigma. Le controversie binarie di breve termine, spesso, trovano una possibile soluzione nel lungo termine.
La costruzione di nuove piattaforme capaci di tener conto dei tempi diversi della maturazione delle opinioni potrebbe essere un buon progetto. Passa probabilmente dal riutilizzo dei dati registrati in modo tale da distinguere quelli che riguardano fenomeni che si modificano velocemente e quelli che durano.
Il mondo mediatico è parte del mondo reale, lo caratterizza e ne alimenta la complessità. Ma è decisivo per la definizione delle nicchie eco-culturali nelle quali evolve la vita umana: gli umani evolvono nello spazio che si costruiscono nell’ecosistema. Questo spazio diventa strutturale. L’innovazione esplora tutte le possibilità all’interno di una nicchia eco-culturale. La forma della nicchia influenza i limiti del possibile percepito. Fino a quando qualcuno va oltre e realizza un salto di paradigma che si trasforma in una nuova nicchia eco-culturale.
I primi decenni della storia di internet sono stati caratterizzati da grandi utopie e grandi esplosioni quantitative. Oggi è il momento di fare un salto qualitativo. Abilitando ambienti culturali che possano favorire strutturalmente la circolazione di messaggi meglio documentati in favore di una maturazione dell’intelligenza collettiva più consapevole. Ma questa è un’altra storia.
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