La strategia delle Big Tech per superare le difficoltà legali è limitare i danni a qualcosa che il loro cash flow riesca a recuperare in fretta e allontanare nel tempo le decisioni più radicali sulla struttura del loro business. In effetti, più guadagnano tempo, più guadagnano. E la dimostrazione palpabile di questo fenomeno è avvenuta in seguito alla disavventura capitata alla causa antitrust che Facebook stava fronteggiando negli Stati Uniti. La causa non è finita per questioni di merito, a quanto si è capito, ma per questioni di metodo giuridico. Tanto che ci sono tutte le premesse perché la questione riprenda nei prossimi mesi, seguendo una procedura più adeguata. (Reuters). Sta di fatto che avendo allontanato per un po’ la minaccia, Facebook ha guadagnato in borsa tanto da arrivare nel ristretto club delle aziende che valgono più di mille miliardi di dollari.
Gli unicorni di tutto il mondo, sommati, non arrivano a quel valore (Businessinsider). Significa qualcosa per un giudizio monopolistico? Per adesso no. Facebook ha commentato dicendo: «Competiamo tutti i giorni per il tempo e l’attenzione degli utenti» (Wsj). Competono, certo, ma non contro altri social network: hanno comprato Whatsapp e Instagram anche per non trovarseli come competitori. Qual è il mercato del quale sono o non sono monopolisti? Fin dagli anni Novanta chiedevo a Scott McNealy – allora grande accusatore del monopolio di Microsoft – se non si dovevano cambiare le regole antitrust nel mondo digitale. Lui rispondeva di no. Ma oggi lo dicono i politici di tutti gli schieramenti americani (Financial Times).
Il problema è che quando un’azienda digitale vince nel suo mercato diventa organicamente monopolista e può attaccare altri mercati. Non soltanto guadagnando quote di mercato attuale. Ma conquistando quote di mercato future: perché può comprare i futuri competitori quando sono ancora piccoli innovatori.
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