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Pubblico o privato… comunità

Questo post è per condividere interrogativi, in un momento in cui aumenta la spesa pubblica, ci piaccia o no.

E dunque: meglio pubblico o privato?

Il dibattito pubblico italiano può diventare particolarmente violento e maleducato soprattutto quando si tratta di criticare il settore pubblico: dai politici alla burocrazia. Ma questo comportamento non si ferma neppure quando si fanno commenti sul contributo dei lavoratori del settore pubblico. Anzi. Negli ultimi tempi una quantità di benpensanti si sono messi a dare addosso violentemente a chi lavora nel settore pubblico.

Nello stesso tempo, chi non si rende conto di quanto il settore pubblico italiano sia problematico è un marziano.

Si potrebbe imparare molto studiando le soluzioni degli altri paesi per i vari temi: dall’aggiornamento dei metodi didattici a scuola (in Finlandia) alla gestione del periodo di disoccupazione (in Germania) e alla tassazione finalizzata all’innovazione (in Francia). Detto questo, a sua volta la burocrazia italiana non è negativa come viene dipinta. Soprattutto le persone che ci lavorano non possono essere attaccate frontalmente come se fossero dei disfattisti cronici. Non è vero e non è giusto.

Quello che è giusto è che esiste in Italia un modo di controllare il settore pubblico a base di leggi che, per bloccare gli imbrogli e la corruzione, impediscono l’innovazione. La complessità delle regole genera una tale paura di sbagliare, nel settore pubblico, da risultare paralizzante.

Si può fare qualcosa in materia? Il problema è ormai essenziale. E ineludibile.

Perché, di fronte alle scelte fatte per contenere la pandemia, la spesa pubblica diventa il vero motore dell’economia. Dovrebbe essere un motore orientato all’innovazione. Se è bloccato da leggi che fanno della paura di sbagliare un freno per qualsiasi innovazione, si perde l’occasione storica di riformare e rilanciare il settore pubblico in Italia. E non c’è dubbio che un risultato così sarebbe un peccato per tutti gli italiani, di qualunque tendenza politica.

Ci sono dei settori strategici per la riforma?

Non sono l’esperto che servirebbe a rispondere. Ma ci sono almeno tre questioni che potrebbero aprire dei varchi interessanti nel muro delle leggi anti-innovazione nel settore pubblico:
1. Pre-commercial procurement
2. Gestione innovativa della ricerca pubblica
3. Innovazione nell’alternanza scuola-lavoro

1. Sappiamo che la spesa pubblica italiana è gigantesca. E che – a parte stipendi e spese obbligate – ci sono almeno 150 miliardi da indirizzare meglio verso l’innovazione, più quelli che arriveranno dal Recovery Fund e che richiederanno progetti innovativi per poter essere spesi. Molta spesa pubblica italiana passa per il procurement, cioè l’acquisto di beni e servizi, con gare e capitolati di tipo antico: si stabilisce una quantità di particolari per descrivere gli oggetti che lo Stato deve comprare, si fanno gare al massimo ribasso, si spende poco per ottenere tante cose fatte male. D’altra parte facendo diversamente, le persone che lavorano per lo Stato avrebbero il timore di essere incriminati per aver sprecato i soldi pubblici. Il precommecial procurement è uno strumento di grande potenziale e poco utilizzato in Italia. Di che si tratta? Si definisce lo scopo che una spesa pubblica deve raggiungere e un prezzo che lo Stato è in grado di pagare per raggiungere quello scopo: dopodiché si lancia una gara per scoprire chi offre una soluzione per raggiungere lo scopo nel modo più innovativo, più efficace, più compatibile con gli obiettivi della maggior parte degli stakeholder. In questo modo la spesa pubblica finanzia gruppi formati da centri di ricerca e aziende produttive che si riescono ad accordare intorno a un progetto innovativo e positivo, sapendo dall’inizio su quanto denaro potranno contare. L’innovazione emergente in questo modo avvantaggia gli innovatori, i cittadini e la stessa immagine della pubblica amministrazione. Nei casi in cui si usa questo struneto la Corte dei Conti potrebbe perseguire non chi spreca i soldi pubblici ma chi non innova e non risolve i problemi usando i soldi pubblici.

2. La ricerca pubblica, per esempio al CNR, è organizzata sulla base di contratti molto stabili per i ricercatori. È molto difficile entrare ma è impossibile uscire, se non per motivi incredibilmente rari. La ricerca pubblica all’IIT invece è organizzata per risultati: i contratti sono a termine e i tempi per ottenere risultati sono limitati. Nel sistema tipo CNR si rischia di non avere risultati. Il che per la verità è proprio della ricerca, nel senso che se si cerca qualcosa non è detto che lo si trovi. Un esempio è la produzione di energia a base di fusione nucleare. Si cerca, si cerca, ma non si trova. Certo è che nel percorso di ricerca si possono sempre trovare cose interessanti. Dunque vale la pena di tentare sempre. Con il sistema IIT si ottengono talvolta fantastici risultati ma, dicono i critici, si rischia di disperdere il sapere accumulato dai ricercatori che oggi sono qui domani da un’altra parte. Può darsi. Di certo occorre knowledge management. Varrebbe la pena di studiare quello che succede in Germania, al Max Planck Institute e al Fraunhofer Institute: perché dovremmo inventare qualcosa di diverso da quello che altrove funziona? E poi sì, oltre a questo, si può sempre mantenere anche qualcosa fatto all’italiana: perché noi siamo fortissimi a creare sistemi di ricerca olistici, fortemente integrati tra scientifico e umanistico, capaci di generare visione e resilienza in modo migliore che altrove: dobbiamo pur essere consapevoli dei nostri punti di forza.

3. L’alternanza scuola-lavoro è stata un’ottima idea ancora poco sviluppata. I ragazzi che la fanno bene imparano cose che non dimenticheranno mai più. Non dovrebbe essere una attività del tutto a carico dello Stato. Dovrebbe essere una pratica pubblico-privata in grado di dare vantaggi al sistema educativo, alle aziende e alle scuole. In un’ottica di lifelong learning. I ragazzi che fanno alternanza scuola-lavoro all’Allianz, in Italia, ricevono uno stipendio e fanno lavori veri. Ed è così anche in altre aziende. Possibile che non si possa rendere questa pratica un vantaggio per tutti?

Il rapporto tra pubblico e privato non si esaurisce con queste idee. Ma non può restare un problema ideologico. Va risolto sul piano pragmatico.

Anche perché la vera dimensione nella quale viviamo non è quella dello Stato o quella del mercato. Noi viviamo nella comunità. E se vogliamo bene alla comunità dobbiamo trovare soluzioni per portare a vantaggio di tutti le attività che facciamo con lo Stato e quelle che sviluppiamo nel mercato. Questa cosa va capita meglio. Mi sforzerò di capirla meglio e ne scriverò anche qui. Ma non c’è dubbio che alcune risorse sono della comunità: l’ambiente, la qualità delle relazioni sociali, l’identità e la creatività culturale. Lo scopo del pubblico e del privato dovrebbe essere quello di fare bene alla comunità. Dunque le due dimensioni dovrebbero convergere nella terza. Ma, ripeto, questo va approfondito, se è possibile.

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  • Articoli molto interessanti che affrontano concretamente il tema del progresso analizzando le dimensioni che caratterizzano la società italiana e quella europea/mondiale. Interessante l’analisi dei quattro scenari, mi sembra di cogliere una contestualizzazione socio – economica degli stili di management: davvero micro e macro mondo sono interdipendenti. Interessante ricordare che il progresso è frutto di un’elaborazione culturale, politica, intellettuale e…valoriale. Nei contesti dell’istituzione scolastica quanto viene dedicato alla condivisione valoriale del servizio educativo che si svolge? Quanto alla maturazione di una vision capace di dare una prospettiva per la quale spendere le proprie risorse professionli/economiche (oltre che finanziarie)?

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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