La narrativa che parla dell’intelligenza artificiale come di una sorta di competitore dell’intelligenza umana, diventa argomento di romanzo – come nell’ultimo Dan Brown – il che va benissimo. Coltivare l’immaginazione su quello che può significare una macchina che sa pensare autonomamente è un’attività di enorme importanza. Ma le proiezioni immaginifiche non dovrebbero coprire troppo la consapevolezza diffusa della realtà dei fatti attuale. Che è un’altra.
L’intelligenza artificiale sa fare una cosa alla volta e deve essere allenata in modo da insegnarle a dominare un argomento specialistico. In genere si occupa di classificare dati sparsi in modi diversi allo scopo di servire a uno specifico compito. Molto materiale che serve ai suoi ragionamenti viene direttamente dagli umani (che per esempio taggano le foto per dire all’intelligenza artificiale che cosa raffigurano), moltissimo materiale è tratto da ciò che è registrato in rete (per le traduzioni per esempio o per la classificazione dei testi destrutturati), un po’ è frutto di elaborazioni autonome delle macchine (il caso della nuova versione di AlphaGo). Comunque si tratta di operazioni che stanno dentro specifici domini disciplinari. Qualcuno cerca anche di sviluppare l’intelligenza artificiale generale, come Google, ma l’obiettivo appare ancora molto molto lontano.
Secondo l’Economist il tema di oggi non è la competizione tra intelligenza artificiale e intelligenza umana: la questione del momento è la grande competizione tra i giganti della rete, americani e cinesi, supportati dalla grande finanza di ventura, per la conquista di posizioni dominanti nei servizi basati su intelligenza artificiale. Nei primi nove mesi del 2017 sono stati investiti 7,6 miliardi di dollari in venture capital destinato a imprese che lavorano sull’intelligenza artificiale. Mentre le grandi aziende hanno operato acquisizioni di imprese che operano nell’intelligenza artificiale per un ammontare di circa 21,3 miliardi di dollari fino a questo momento nel 2017 (Economist).
Questo tema è più urgente dell’argomento secondo il quale l’intelligenza artificiale prende il posto di quella umana e addirittura elimina posti di lavoro (Osborne e Frey).
Anche perché – secondo Adriana Braga and Robert K. Logan, rispettivamente Pontifícia Universidade Católica do Rio de Janeiro e Department of Physics, University of Toronto, autori di “The Emperor of Strong AI Has No Clothes: Limits to Artificial Intelligence” – l’intelligenza artificiale non arriverà mai a sostituire quella umana. Parlano da una prospettiva di media ecology, Braga e Logan. E osservano che l’intelligenza umana è plurale. Quella del computer, non lo è: «The notion of intelligence that advocates of the technological singularity promote does not take into account the full dimension of human intelligence. They treat artificial intelligence as a figure without a ground. Human intelligence as we will show is not based solely on logical operations and computation, but also includes a long list of other characteristics that are unique to humans, which is the ground that supporters of the Singularity ignore. The list includes curiosity, imagination, intuition, emotions, passion, desires, pleasure, aesthetics, joy, purpose, objectives, goals, telos, values, morality, experience, wisdom, judgment, and even humor».
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