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I Dati Uniti d’Italia. E altri appunti per un’audizione alla Camera su industria 4.0

Oggi sono andato alla Camera per un’audizione della X Commissione sul tema: industria 4.0.

Non intendo riportare puntualmente quello che è venuto fuori ma dare il senso di quello che ho avvertito come un sentire comune. Ecco gli appunti che ho preso nel corso di questa esperienza.

Dal 2008, l’Italia ha perso un quarto della sua produzione industriale, gli impianti nelle aziende manifatturiere sono invecchiati (le macchine con più di 11 anni di vita erano circa un terzo nelle fabbriche italiane del 2005 e sono i due terzi oggi), ha perso posizioni in tutte le classifiche della modernità digitale. Nel frattempo, la sfida si fa sempre più importante. Nel primo quindicennio del nuovo millennio, la dinamica economica è stata ritmata dall’innovazione accelerata: prima dal web, poi dall’internet mobile, poi dall’iper-finanza, ora dall’attrazione delle grandi frontiere dei big data, internet delle cose, automazione e robotica, intelligenza artificiale, industria 4.0. Per l’economia italiana, apparentemente, è la grande sfida epocale: accettare un declino che non è per nulla inevitabile o trasformare il ritardo in una rincorsa con la possibilità di saltare qualche passaggio e ripartire da un punto più moderno di qualche concorrente.

(Gli italiani sono abituati a fare i compiti all’ultimo momento e non è un bene: ma se non hai fatto nulla di nulla fino a quando è quasi troppo tardi, allora ti tocca studiare almeno la notte prima degli esami).

Quali sono le operazioni da compiere? Prima di tutto comprendere la profondità strategica della sfida. Secondo interpretare la sfida cercando se possibile una via italiana. Terzo prendere misure adeguate.

La questione dell’industria 4.0 è chiara. Automazione, big data, connettività, energia verde e commercio digitale sono tecnologie che stanno arrivando a convergenza. Si configurano come acceleratori del sistema manifatturiero. Consentono di pensare produzioni in volumi ridotti e con grande valore aggiunto, con monitoraggio della qualità e tracciamento delle componenti, in relazione a una sorta di piattaforma logica che abbatte i costi di transazione, informazione, commercializzazione e coordinamento produttivo, generando opportunità costanti per miglioramenti qualitativi nei prodotti. Una piattaforma logica che può essere interpretata in modi diversi. Gli americani la vedono dal punto di vista del capitale finanziario. I tedeschi la vedono prevalentemente dal punto di vista delle loro grandi organizzazioni produttive. Gli italiani devono trovare la loro chiave per interpretarla.

Gli italiani, privi come sono di capitale finanziario ma dotati di un grande capitale umano, tendono a finanziarsi con il fatturato. Il che dovrebbe portarli – e spesso li porta – a progettare soluzioni che aumentino la produttività delle persone non a sostituirle. Forse la finanza americana pensa che il profitto aumenti se si riesce a sostituire la macchina all’umano. Forse l’economia reale tedesca pensa che il mercato si conquisti se si riesce a sostituire la variabilità dell’umano con la stabilità dell’organizzazione. Di certo, all’Italia tocca trovare la via per manutenere la produttività dell’umano con l’innovazione quotidiana. Talvolta con l’innovazione più radicale.

È una buona idea pensare alla via italiana all’industria 4.0? È velleitario pensare che possa esistere una strategia manifatturiera moderna italiana?

È una buona idea. Ma in generale occorre pensare con la giusta dose di realismo al contesto internazionale: il che significa che non si può competere se non si è connessi, se non si parla il linguaggio del commercio internazionale e non ci si adegua al suo ritmo; ma significa anche che non si fa valore aggiunto se non si coltiva una propria unicità.

Ma è velleitario? La retorica del declino, quella che si basa su frasi tipo “ormai abbiamo perso l’Olivetti…” non tiene conto dei fatti. L’Olivetti non è mai stata grande nella tecnologia elettronica al servizio dell’ecosistema dell’innovazione quanto per esempio l’StMicroelectronics. La Stm ha un ruolo globale nei sensori, nelle componenti dell’automazione industriale e dell’auto intelligente: vende tecnologia in dimensioni che l’Olivetti non ha mai raggiunto. Insomma: non è che non ci siano le aziende tecnologiche in Italia. Ma non è generalizzata la capacità di cogliere la sfida contemporanea nel grosso delle imprese industriali italiane che ancora vivono di relazioni di prossimità più che di visioni e informazioni o connessioni globali. Chi fa un salto nella nuova dimensione culturale ed imprenditoriale ha ottime chance, in effetti. E i 400 miliardi di esportazioni italiane, in fondo, ne sono una dimostrazione patente: non sono fatti di commodity, sono fatti di prodotti a valore aggiunto, in generale. Spesso si inseriscono nelle filiere tecnologiche tedesche o francesi, talvolta vivono di marchi propri, altre volte sono proprietà straniere che trovano utile produrre con il capitale umano italiano. Ma raramente sono esportazioni di basso valore. E mantengono il loro valore innovando, spesso per via informale: contando sulla collaborazione dei tecnici straordinari che ci sono in fabbrica, sulla base di ricerche non strutturate, oppure semplicemente per la maniacale capacità di rispondere alle esigenze del mercato. Perché il fatturato è l’unico vero finanziamento dell’industria italiana e il cliente è dunque la stella polare.

Allora “industria 4.0” diventa una sorta di tessuto connettivo per l’industria italiana che si allaccia al resto del mondo, e in particolare alla Germania. Occorre svelarne l’importanza agli imprenditori e agli operatori economici italiani. Formazione e cultura tecnica sono obiettivi doverosi. La connettività a banda ultralarga è l’infrastruttura necessaria: senza se e senza ma. È necessario adeguare le politiche attive del lavoro per sottolineare l’emergere di nuove professionalità tecniche. E insieme rigenerare la cultura umanistica: dopo anni di concentrazione sul mantra della necessità di moltiplicare i matematici ora Harvard sottolinea l’opportunità di recuperare gli umanisti. Per l’Italia che è due passi indietro, si tratta di moltiplicare i tecnici e connetterli a nuovi umanisti consapevoli dell’approccio empirico alla conoscenza. Ma soprattutto si tratta di incentivare la ricerca di una interpretazione italiana di questa tendenza: un’interpretazione che può emergere solo se si accolgono i fondamentali del nuovo paradigma e si trasformano in qualcosa di adatto ai nostri punti di forza. Piccole aziende, spesso geniali, dotate di grande capitale umano, capaci di generare valore aggiunto con piccole produzioni, in grado di innovare in modo informale. Si tratta di trovare il modo per creare condizioni meno sfavorevoli per la ricerca di qualcosa che l’Italia non ha fatto: la creazione di piattaforme.

L’Italia non ha prodotto grandi piattaforme. L’eccezione spiega la regola: Yoox è cresciuta come piattaforma di commercio di oggetti fashion e design, ma anche perché il suo fondatore ha dato priorità alla crescita dell’azienda rispetto al mantenimento controllo. Le piattaforme hanno successo se possono scalare e dominare un mercato: se la crescita è frenata dall’esigenza di controllo della famiglia imprenditoriale, allora non scala, non domina un mercato e non diventa una piattaforma di successo. Questa ossessione del controllo familiare è collegata a una sorta di sfiducia nel resto del sistema. Se non ci si fida non si cede controllo.

Eppure servirebbe, un po’ di fiducia. Una grande strategia nei big data italiana si potrebbe portare avanti proprio attraverso la collaborazione tra le imprese che possiedono piccole porzioni di “big data” e che potrebbero metterli insieme – anonimizzati, senza perderne il possesso – per generare una base di informazione che potrebbe essere essere usata per trovare correlazioni e sviluppare conoscenze superiori a quelle che ciascuna impresa potrebbe avere contando soltanto sui propri dati. Questa collaborazione ha bisogno di un clima di fiducia.

Come di un clima di fiducia ha bisogno l’introduzione di un grande progetto di sistema, come il Tecnopolo di Milano. Accanto al quale andrebbe sviluppata una conoscenza di lungo termine orientata al futuro. Le controversie che il progetto ha generato non smentiscono la qualità dell’obiettivo. Ma la fiducia che le azioni di sistema siano davvero orientate al bene comune è sempre una risorsa scarsa in Italia.

Questo potrebbe essere l’obiettivo di un’azione fondamentale del Parlamento. Ancor più del Governo, il Parlamento è il luogo della Repubblica, è dove si trova l’insieme dei valori che sono bene comune, o almeno è dove sono rappresentati tutti gli interessi che trovano rappresentanza. È l’istituzione che più di ogni altra può dichiarare che una certa politica è la politica di tutti gli italiani, chiunque sia al Governo. Per un lungo tempo in avanti. E di visione di lungo termine, in fondo, si parla quando si discute di industria 4.0.

Questi erano solo appunti. Spero si possano sviluppare con l’aiuto dei commentatori.

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Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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