Marc Augé l’antropologo che ha saputo portare i suoi strumenti di ricerca al servizio della comprensione della civiltà occidentale contemporanea ha creato nozioni di grande forza interpretativa. Come l’idea di “surmodernité” e l’elaborazione intorno ai “non luoghi”. Oggi era a Bologna, per la conferenza “Cultura e giustizia sociale” organizzata da Unipolis nel quadro di Culturability.
Riasssumo. Marc Augé ha esordito osservando come la contraddizione tra le prospettive aperte dalla scienza e la paura del futuro che pervade la popolazione sia connessa con i limiti raggiunti dalla cultura tradizionale dello spazio e del tempo sia connessa a una sorta di iperpresente che conduce a un paradosso (che riassumo sperando di non tradire il pensiero di Augé): per guadagnare tempo aumentiamo i tempi morti e li riempiamo di consumi operati con i nuovi media. La logica del consumo si insinua nella geografia cambiando le distanze: l’aereo avvicina i luoghi lontani ma la città trafficata si allontana dal suo proprio aeroporto; le multinazionali comparano le condizioni dell’offerta di lavoro tra paesi lontani ma li avvicinano con i trasporti navali più efficienti della storia. Il civismo e la solidarietà si spezzano di fronte alle logiche del consumo. La solitudine aumenta.
Se Duby studiava i tre ordini medievali – aristocrazia, clero e popolo – oggi emergono tre nuovi ordini sociali: gli oligarchi, i consumatori e gli esclusi. Gli oligarchi vivono in un mondo a parte dove coltivano l’enorme potere e ricchezza che accumulano nella loro posizione, tra la finanza, l’alta politica e il governo delle multinazionali. I consumatori sono il grosso della popolazione. Ma negli interstizi della loro società, a loro volta in un mondo a parte, vivono gli esclusi.
IL mondo attuale ci chiede di ripensare il tempo: che non è un eterno presente. Ci accorgiamo che il denaro e gli oggetti di consumo finiscono.
Si riscopre il valore del rito. Che a sua volta affonda le radici nel passato, che rispetta, ma non funziona se non apre la visione verso l’avvenire. L’arte in questo senso è rituale.
I festival culturali – che hanno tanto successo in Italia e testimoniano della “fame” di cultura di questa popolazione – potrebbero a loro volta essere dei riti. Di certo, la gente si ritrova in piazza a celebrare un accesso alla cultura che però non risolve le divisioni: le persone comprendono ciò che possono in base alla loro diversa preparazione.
A fronte di tutto questo emerge la priorità più chiara e netta del mondo attuale. Un’utopia dell’educazione che aiuti le persone a svilupparsi, che risponde a domante esistenziali e scientifiche, che riconosce – con Sartre – in ciascun uomo l’intera umanità. Che culturalmente tiene conto dell’uomo individuale e cosciente di sé, dell’uomo culturale che trova i suoi riferimenti in un insieme che lo accomuna agli altri uomini, dell’uomo generico, universale, che rappresenta la specie umana.
Un’utopia realizzabile e necessaria. Perché la scuola venga prima della piazza.
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