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Start-up: un terreno culturale comune

La struttura del sistema economico italiano ha urgente bisogno di crescita, occupazione, innovazione. Non c’è dubbio che quest’anno gli italiani hanno dedicato molta attenzione alla relazione tra queste urgenze e la fioritura di un ecosistema favorevole alla nascita di nuove imprese innovative. Sono partite molte iniziative sulle start-up: associazioni, siti di servizio, database. In Parlamento sono apparse diverse iniziative per favorire le start-up e, in un contesto meno diviso tra i partiti, quelle iniziative hanno fatto una strada importante verso il consenso interpartitico. Al Governo, il ministero dello sviluppo ha preso a sua volta l’iniziativa sviluppando un’azione complessa e ambiziosa. Le aspettative sono cresciute più della realtà, per ora.

In effetti, l’urgenza è tale che la straordinaria attenzione rivolta dalla politica a questo tema, dopo tanto tempo di colpevole sottovalutazione, non basta a confortare chi vede come manchino ancora le decisioni. E in questo montante sconforto emergono critiche, divisioni, atteggiamenti scettici e talvolta cinici. Questa situazione rischia di alimentare una delle condizioni italiche tradizionali più distruttive: di fronte alla necessità di avviare una fase di forte cambiamento, invece di prendersela con le soverchianti forze della conservazione, gli innovatori si attaccano tra loro, privilegiando la difesa della propria peculiarità soggettiva invece di unire gli sforzi per superare i motivi che frenano l’innovazione. È l’effetto di una mancanza di leadership come è l’effetto di una carenza di cultura del bene comune. Ma di fronte all’importanza del tema, queste mancanze si rivelano e potrebbero condurci a correggerle, almeno un po’.

Niente di nuovo né stupefacente. La moltiplicazione delle critiche, in questo caso, è un fenomeno connesso prima di tutto con la lentezza con la quale si prendono le decisioni. Le critiche – ragionevoli o preconcette – sono necessarie e ineludibili. E logicamente, in questo momento, si concentrano intorno all’azione del governo. La situazione è nota: il ministero dello Sviluppo ha chiesto a una dozzina di esperti e osservatori del mondo delle start-up di raccogliere le idee su ciò che occorrebbe fare per accelerare la nascita di imprese innovative in Italia con l’intenzione di usare il rapporto di quella task force (alla quale chi scrive ha partecipato) come punto di riferimento per poi produrre una decisione legislativa in materia. Il rapporto è stato prodotto dalla task force coinvolgendo un vastissimo insieme di persone che opera nel mondo delle start-up e lo ha consegnato al Governo. E ora i funzionari dell’amministrazione stanno facendo la loro parte scrivendo il decreto che verrà proposto al Parlamento. A loro volta, probabilmente, stanno tenendo presenti le iniziative parlamentari già avviate, le istanze apparentemente divergenti dei vari ministeri, le compatibilità finanziarie e le labirintiche matasse di leggi con le quali si intreccia l’innovazione da introdurre per accelerare l’ecosistema delle start-up.

Questo è l’iter. Lentissimo e complicato. Chiaramente insoddisfacente di fronte all’urgenza. E stiamo aspettando per questa settimana di conoscere le decisioni di chi sta nelle stanze dei bottoni. I membri della task force, le centinaia di persone che hanno contribuito al rapporto, i potenziali startupper, i potenziali finanziatori, le università e i parchi scientifici, gli osservatori e tutto l’ecosistema stanno aspettando di sapere se le decisioni saranno ambiziose e puntuali o generiche e compromissorie. Saranno reintrodotte limitazioni tradizionali (si teme ad esempio le reintroduzione di una limitazione delle misure al solo mondo dei giovani con meno di 35 anni che la task force non aveva voluto)? Saranno sterilizzate le semplificazioni burocratiche e fiscali? Sarà introdotto qualche meccanismo arbitrario? Si rimanderà a una pletora di regolamenti attuativi che rischiano di non arrivare in tempo per rendere effettiva l’innovazione legislativa? Le domande si moltiplicano e i rischi non mancano.

L’influenza della task force non è andata oltre la possibilità di fare ascoltare al Governo le istanze e le considerazioni nate dall’esperienza. E correttamente non può e non deve superare questo ruolo, poiché altrimenti renderebbe credibile il sospetto di un conflitto di interessi che è stato sollevato recentemente.

La task force non ha potere, in effetti. Ma ha partecipato al processo proprio perché i suoi componenti hanno valutato positivamente il fatto che l’amministrazione abbia voluto ascoltare chi lavora nelle start-up prima di decidere in materia. Si noterà peraltro che questo Governo ha aperto diverse consultazioni con diverse modalità e usando diverse metodologie. Dovrebbe essere un’innovazione da mantenere per il futuro, coinvolgendo possibilmente diverse persone.

Si tratta in sostanza di creare una relazione costruttiva tra chi lavora e fa esperienza nei contesti sui quali occorre intervenire con un’innovazione legislativa e chi decide in materia. Il legislatore dovrebbe avere un ruolo metodologicamente chiaro, per essere più efficiente, consapevole e veloce, anche sollecitando il supporto di informazioni da parte di chi può darlo sui contenuti delle decisioni. Questa innovazione metodologica deve maturare. Ma il passaggio potrebbe diventare irreversibile. Mentre molti lavorano sulla trasparenza, la partecipazione, la consapevolezza delle compatibilità tra le conseguenze di decisioni alternative; mentre alcuni sviluppano piattaforme digitali per agevolare questa maturazione democratica (open data e bilancio partecipativo, NationBuilder e LiquidFeedback, e così via…); e mentre in ogni caso la democrazia appare come un sistema che ha sua volta ha bisogno di innovazione per adattarsi al mutato contesto globale: ebbene, questi esperimenti di nuova partecipazione e dialogo tra i decisori e i cittadini servono a fare esperienza su un percorso fondamentale.

L’obiettivo è costruire una consapevolezza del terreno culturale comune che dovrebbe stare alla base del dibattito attraverso il quale si prendono le decisioni. Il senso civico unisce, gli interessi dividono: la dinamica della convivenza ha bisogno sia dell’uno che degli altri. Per troppo tempo abbiamo assistito a dibattiti basati solo sulla contrapposizione dei punti di vista particolari ma è tempo di rivalutare ciò che abbiamo in comune. Per concentrarci sui fatti e i risultati, non sulle intenzioni e le aspettative.

Update: da vedere il pezzo di Paul Graham su start-up e crescita.

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  • E’ un’impresa ardua collocare l’innovazione nella prospettiva del bene comune. Soprattutto quanto le applicazioni innovative prendono forma e chi le ha create e promosse diventa il loro portatore di interesse. Allora tutto si irrigidisce e quindi chi insiste per cercare convergenze si trova in difficoltà rispetto a chi preferisce affidare la soluzione al conflitto.

  • Ho letto con molto interesse il rapporto, molte cose sono probabilmente frutto di un processo decisionale e di confronto che andrebbe approfondito. Complessivamente si tratta di un ottimo punto di partenza, la cosa che spero venga modificata (e su questo mi conforta anche il pezzo di Graham) è la definizione di start up data a pag. 26 del rapporto: in pratica se una azienda nasce non per sviluppare un nuovo prodotto ma per commercializzare prodotti e servizi in forma innovativa non viene considerata una start up….
    EBay o Amazon pertanto sarebbero state escluse dagli interventi previsti, e la cosa, scusate, mi sembra paradossale….
    Non considerare start up le aziende che nascono per fare eCommerce, mCommerce o Social Commerce è un grosso errore, cerchiamo di rimediare!

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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