“Le città intelligenti” proposte a Glocus oggi esistono come l’utopia che serve a portare avanti l’energia culturale necessaria a costruire una vita nuova. Si possono vedere ma non visitare. Si possono progettare ma non conoscere.
Finora il tema delle città intelligenti è stato soprattutto un tema tecnologico (e meno male che gente come Ibm, Cisco, Microsoft e molti altri si sono occupati di sostenere il concetto). Ma come insegna Carlo Sini, «non c’è mezzo senza un fine» (via Andrea Granelli). Qualunque scelta degli strumenti per i quali arrivare alle città intelligenti contiene un fine. Questo fine può essere esplicito o implicito, può essere alto o basso, consapevole o banale. Ma di solito, quando si pensa al mezzo senza porsi fondamentali domande sui fini si arriva a qualche disastro.
La bellezza del tema delle città intelligenti è che consente di esprimere una visione senza perdere la concretezza.
Le città intelligenti possono partire dalla visione di quelle città inesistenti sulla carta amministrativa ma nelle quali la gente vive già oggi. L’insieme di paesi, cittadine e città che costituisce la realtà di Milano oggi non è pensato da nessuno, non è governato se non dal caso, non esiste nella coscienza della politica: ma è il posto dove vivono 9 milioni di persone (Censis) che non sanno come fare ad andare da Seregno a viale Monte Rosa senza perdere la vita alla ricerca dei mezzi pubblici giusti o cercando la strada intelligente per muoversi in auto. E di queste supermetropoli non dette ma vissute ce ne sono molte: Venezia-Padova-Treviso, Napoli e Roma con il loro circondario, Firenze-Prato e dintorni… Come si pensano se non si nominano neppure, queste città? Sono fatte di diversi comuni e addirittura province diverse. Ma sono realtà fisiche unitarie. Nominarle sarebbe rivelarne l’esistenza. E poi si potrebbero governare.
Alfonso Fuggetta dice che le informazioni disponibili sono ricchissime e consentirebbero di inventare modi completamente nuovi per spostarsi, conoscere le condizioni della città, prevederne gli sviluppi. Ma queste informazioni a loro volta sono divise in silos separati: solo la tangenziale che circonda Milano è in realtà gestita da tre società separate che hanno le informazioni sul loro tratto ma non mettono insieme i dati. Sicché nessuno ha una visione completa della situazione. Una interoperabilità dei dati, una sorta di standard di gestione dei dati, aprirebbe la strada a una informazione completa sulle realtà omogenee per la vita quotidiana delle persone. E farebbe venire in mente applicazioni inattese.
Internet dimostra che una rete aperta, standard, pubblica e interoperabile è uno dei commons più importanti. E per questa sua conformazione stimola l’innovazione. Ma allo stesso modo, la forma aperta, standard, interoperabile dei dati potrebbe alimentare un ecosistema di informazioni in grado di far nascere altrettante innovazioni inattese. E direttamente utili per la popolazione urbana. François de Brabant testimonia le possibilità operative di un pensiero visionario anche nel suo progetto City+, destinato a dare qualche contenuto all’Expo 2015.
La visione di una città che non ha nome è il primo passo per riprogettarla. Nicola Zingaretti pare averne piena consapevolezza. Linda Lanzillotta ci lavora. Mario Calderini, professore al Politecnico di Torino e consigliere dell’Agenzia per la diffusione delle tecnologie per l’innovazione conferma che questa strada è feconda e necessaria.
Si può ripartire da una visione. Non è una follia. Probabilmente è la sola strada. Altrimenti il fine implicito nella gestione dei mezzi attuali, prende il sopravvento.
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