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Stratfor: la ragion di stato porta gli Usa fuori dall’Afghanistan

La grande strategia britannica era quella di governare dividendo: quando una potenza emergeva troppo la si contrastava aiutando una potenza concorrente a contrastarla… Una strategia che aveva un sacco di precedenti, da Roma a Venezia. E che è stata seguita dagli Stati Uniti nella seconda metà del secolo scorso. Ma dall’11 settembre del 2001 quella strategia è in difficoltà. Perché è una strategia che richiede l’utilizzo di una grande gamma di “armi”, da quelle culturali a quelle violente, da quelle diplomatiche a quelle economiche. E invece negli ultimi nove anni tutte le “armi” americane si sono concentrate sulla guerra violenta nella regione che va dal Mediterraneo alla valle dell’Indo.

La ragion di stato dovrebbe condurre l’America fuori dalla guerra in Afghanistan. E se lo dice uno dei più lucidi analisti dei problemi della strategia globale, uno che ha sostenuto la guerra in Iraq e l’ossessione della guerra contro al Qaeda, vuol dire che qualcosa sta succedendo.

Insomma, il bellissimo pezzo di George Friedman, Stratfor, va letto. (Grazie a Marco che lo ha segnalato).

Friedman, con grande umiltà, dice che tutto quello che è stato detto – dal governo americano e dagli osservatori come lui stesso – in materia di strategia contro il terrorismo è stato dettato dalla paura, non dalla ragione. Una paura comprensibile. Che ha focalizzato troppe energie su una regione e un obiettivo che non meritava tanta attenzione, perché si è dimostrato che non era poi un obiettivo tanto pericoloso. (Friedman sbaglia – non ingenuamente – solo ad attribuire al presidente americano George W. Bush le decisioni: lui, nel giorno dell’attacco stava leggendo “La mia capretta” in una scuola davanti a una telecamera il cui contenuto sarebbe poi finito in un film di Michael Moore…).

L’America può aver perso la guerra in Afghanistan. Ma – dice Friedman – è ora di capire che non vale la pena di insistere. Perché mentre perdiamo tempo sui destini di Kandahar, dice, altre potenze, come la Cina, vanno avanti in un vuoto strategico americano che gli Stati Uniti non si possono permettere.

(Il tenutario di questo blog non è uno stratega né un esperto di cose militari. E non è detto che abbia capito tutto l’articolo citato. Ma un articolo così lo legge volentieri e lo consiglia. Se poi qualcuno volesse vedere una certa soddisfazione nello scoprire la somiglianza tra le conclusioni di Friedman e alcune delle considerazioni che ai tempi facevano i non violenti non massimalisti che non riuscivano a cogliere il nesso tra l’attacco alle Torri Gemelle, gli interessi americani e la guerra in Iraq, beh, quella soddisfazione, purtroppo solo intellettuale, in effetti, c’è. Quella guerra è stata più rabbia e vendetta che intelligenza: una rabbia che è costata un’enormità di vittime innocenti oltre il necessario, che ha portato l’America in una crisi economica enorme, che ha rafforzato gli avversari veri dell’America e che viene pagata da tutto il mondo).

Nel suo ultimo articolo, Friedman suggerisce una mossa coraggiosa, da parte di Obama… E non ambigua…

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  • Come segnalatore dell’articolo, mi poreme aggiungere che per Friedman l guerra in Iraq è stata giusta e che è necessario che l’America resti in Iraq con forze militari robuste.

  • Invito comunque tutti a leggere l’articolo originale. Non ho tempo di sottolienare i punti dove l’esposizione di Luca è in realtà un’interpretazione (a volte molto vicina al travisamento): es. Friedman non parla mai di “paura”, ma di “assuming for the worst case” e ne attribuisce l’inevitabilità al fallimento dell’intelligence riguardo alle capacità di Al Qaeda che risale agli anni di Clinton. Ci fosse un altro attentato oggi negli Stati Uniti, la critica sarebbe di non fare abbastanza (e infatti Obama continua a stringere il nodo, vedi la recente direttiva sulle intercettazioni senza preventiva autorizzazione giudiziaria, molto più larga di quella di Bush, ma tanto in Italia i giornalisti scrivono solo, non leggono).
    Sorvolo sulla battuta su Bush che durante l’attacco era in una scuola elementare e quindi non avrebbe deciso nulla, un totale non sequitur logico e fattuale. Un grande esempio di sangue freddo, comunque. Ma tant’è, capisco anche le esigenze di indicizzazione.
    Per me, nel 2001 e dopo G.W.Bush era il mio presidente e continuo a pensare che sia così, come venne detto in una telefonata il 12 settembre 2001. Cambiare idea si può, certo. Ma non sulla base del “perfect hindsight”, come dicono gli anglosassoni. Troppo facile prevedere il passato.

  • di paura parla esplicitamente friedman: “In order to understand the last nine years you must understand the first 24 hours of the war — and recall your own feelings in those 24 hours. First, the attack was a shock, its audaciousness frightening. Second, we did not know what was coming next. The attack had destroyed the right to complacent assumptions. Were there other cells standing by in the United States? Did they have capabilities even more substantial than what they showed on Sept. 11? Could they be detected and stopped? Any American not frightened on Sept. 12 was not in touch with reality. Many who are now claiming that the United States overreacted are forgetting their own sense of panic. We are all calm and collected nine years after.
    Read more: 9/11 and the 9-Year War | STRATFOR ”

  • Nn volevo fare questo ma visto che mi ci trascini mani e piedi legati:
    Freidman continua:
    “At the root of all of this was a profound lack of understanding of al Qaeda, particularly its capabilities and intentions. Since we did not know what was possible, our only prudent course was to prepare for the worst. That is what the Bush administration did. Nothing symbolized this more than the fear that al Qaeda had acquired nuclear weapons and that they would use them against the United States. The evidence was minimal, but the consequences would be overwhelming. Bush crafted a strategy based on the worst-case scenario.
    Bush was the victim of a decade of failure in the intelligence community to understand what al Qaeda was and wasn’t. I am not merely talking about the failure to predict the 9/11 attack. Regardless of assertions afterwards, the intelligence community provided only vague warnings that lacked the kind of specificity that makes for actionable intelligence. To a certain degree, this is understandable. Al Qaeda learned from Soviet, Saudi, Pakistani and American intelligence during the Soviet occupation of Afghanistan and knew how to launch attacks without tipping off the target. The greatest failure of American intelligence was not the lack of a clear warning about 9/11 but the lack, on Sept. 12, of a clear picture of al Qaeda’s global structure, capabilities, weaknesses and intentions. Without such information, implementing U.S. policy was like piloting an airplane with faulty instruments in a snowstorm at night.”

  • scusami Marco: ho ovviamente linkato il pezzo e tutti potevano leggerlo, quindi queste citazioni (la mia per prima) sono pleonastiche. Ma mi pareva di aver letto nel tuo commento un passaggio sul fatto che Friedman non parlava di paura e ho citato le sue parole (dove di paura si parla). Seguono naturalmente altre considerazioni. Spiegami se ho capito male: mi pare che Friedman dica che ora è sbagliato concentrarsi troppo su quella regione lasciando andare avanti liberamente altre potenziali minacce… Suggerire di concentrarsi meno su quella regione perché ci si è concentrati troppo (era stato scelto lo scenario peggiore, ma non è stata una scelta corretta) significa dire che si è speso troppo per quella regione e che si deve cominciare a spendere meno per quella regione… O mi sbaglio? E’ un’autocritica a quello che si è fatto e una critica a chi pensa di continuare a sbagliare. O mi sbaglio io? Di certo in Friedman non c’è alcuna concessione ai pacifisti integralisti. Ma mi pare che ci sia una convergenza di consigli (basati su motivazioni totalmente diverse): mollare la presa su quella regione e fare attenzione ad altri teatri, riprendere la linea della grande politica e abbandonare l’ossessione. (Un’ossessione che è stata motivata da 24 ore di paura). Noterai per inciso che non cito tutti gli argomenti dei quali Friedman non si interessa (tipo hanno fatto la guerra per il petrolio e gli interessi economici dell’ex vicepresidente… ecc ecc.. questo sarebbe stato scorretto perché certamente non è questo il tema di Friedman…)

  • Corretto, Friedman invita a diminuire la concentrazione quasi esclusiva della politica estera americana (esagera, ma certe posizioni di Obama sono su questa linea) sull’arco che dal Mediterraneo arriva all’Hindukush, ma soprattutto invita a non fare dell’Afghanistan il centro della politica americana anche in quell’arco. Per lui, l’Iraq è MOLTO più importante, perchè in Iraq si contiene l’Iran, in Afghanistan non si contiene nulla e il ritiro o un disimpegno americano porterebbe ad uno scannamento tra Pakistan, Russia, India, Iran etc. dove gli americani opererebbero come power broker (sto integrando con altri suoi interventi, ma la storia delle balance of power in Afghanistan è già in questo pezzo). Come tale, è una critica diretta a Obama.
    Per Friedman la guerra ad al Qaeda e affiliati deve continuare ma non come “multidivisional war” ma con le forze speciali, gi assasini mirati, le extraordinary rendition, i droni, etc.
    In sintesi dice: dopo nove anni di guerra, e sulla base di quello che ORA sappiamo, si può ridurre l’impegno contro Al Qaeda dal livello multidivisional a quello della guerra feroce e non convenzionale e, nell’arco di crisi, concentrarsi sull’Iran. Una long war a bassa intensità invece di una long war a media intensità come ora. Friedman arriva a considerare accettabili futuri attacchi terroristici agli USA continentali, che considera nelle cose. In sintesi, Obama ha sbagliato a presentare l’Afghanistan come la guerra necessaria e deve cambiare strategia.
    Questo dice Friedman. Null’altro. Proprio perchè fosse chiaro cosa aveva scritto, sono intervenuto. Indipendentemente dal fatto se sono d’accordo con lui (in parte, sottovaluta la fragilità del Pakistan, e il Pakistan ha le atomiche).

  • Friedman è un ungherese emigrato e la sua assimilazione (sbagliata) della politica imperialista inglese a quella americana risente di questo background che non permette di comprendere a pieno lo spirito americano, che non è certo imperialista per sua volontà ma quasi sempre per costrizione causata dagli eventi.
    La politica inglese è sempre stata basata sulla violenza, sia quella esercitata in proprio che creando situazioni dove il divide et impera è sempre stato: scannatevi in modo che noi possiamo comandare. E i fatti precedenti la II guerra mondiale ne sono un esempio concreto, per non parlare dell’inutile massacro delle Falkland dove il gusto del sangue ha portato i gurka di sua graziosa maestà a scannare i coscritti argentino.
    Gli Stati Uniti sono in guerra loro malgrado ma, come disse Nimitz dopo la fine della guerra nel Pacifico, “tutto era già stato pianificato, salvo Pearl Harbour”, e sembrerebbe strano che gli strateghi del Pentagono abbiano impiegato fior fior di risorse per due guerre sbagliate.
    L’Iraq doveva essere conquistato perchè si deve evitare, finchè possibile, l’attacco dell’Iran ad Israele, e non tanto perchè Israele è “prediletto” dagli USA (forse è più un problema lasciato dagli inglesi superficiali), ma perchè eliminata Israele, e dopo la ritorsione atomica di questa contro l’Iran, tutta quell’area finirebbe in condizioni economiche paurose e le alluvoni in Pakistan stanno dimostrando con i fatti quello che si sa da tempo dalle simulazioni strategiche: grandi disastri naturali o artificiali che coinvolgano grandi masse di popolazione, come potrebbe essere un attacco atomico, porterebbero tutta quell’area ad una destabilizzazione senza ritorno, il che non è certo auspicabile per tutto il resto del pianeta.
    Ma la mia interpretazione dell’articolo di Friedman è che si tratta di messaggi sotto traccia a chi in Israele, Iran e Pakistan può opporsi a progetti folli e inviterei a leggere un bel libro di applicazine della teoria dei giochi scritto da Bruce Bueno de Mesquita “The predictioner” che spiega, fra l’altro, le applicazioni pratiche ai conflitti nel M.O. di queste teorie matematiche da parte di uno che lavora pure per la CIA.

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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