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Epidemia dislettica?

Al convegno Fast di ieri sui “nati digitali” una una professoressa ha denunciato un aumento dei casi di dislessia e problemi seri di attenzione nei bambini, iperstimolati, incapaci di stare più di un minuto su un punto, per mancanza di concentrazione. Si domandava se questo fosse legato anche all’uso intensivo dei media sociali e del computer in generale.

In un’intervista, Remo Bodei ha detto che la memoria cambia al tempo del computer e di internet: in questo tempo tutto il sapere è accessibile contemporaneamente. Sembra che non occorra ricordare ma solo saper consultare. Il tempo si trasforma in una sorta di iperpresente nel quale c’è una minore esperienza della prospettiva.

In effetti, la rete ha una memoria enorme. Ma si manifesta nella registrazione delle conversazioni che nell’atto di conversare. Eppure, come dice Jeff Hawkins, il nostro cervello funziona imparando storie. Successioni di fatti. 

L’unica risposta, immediata, è salvaguardare e praticare il resoconto dei fatti, il racconto di storie, la ricerca della storia.

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  • Boh. Da piccolo ero dislessico, ma non certo per troppi social network 🙂
    Credo che i problemi siano distinti: la mancanza di capacità di concentrazione, cosa di cui soffro da una vita (all’università preparavo due esami per volta cosi potevo passare dall’uno all’altro…) è sicuramente esacerbata dalla possibilità di avere una “memoria esterna”, ma per la dislessia avrei dei dubbi.

  • Avendo un dislessico in famiglia allargata, posso dire che la dislessia e l’epidemia di dislessia deriva anche da metodi di insegnamento assolutamente fantasiosi nei primi anni di scuola. Si è voluto inserire un volontarismo motivazionale da liceo quando si trattava di addestrare il cervello al controllo psico-motorio e all’interpretazione automatica di simboli. Poi, se qualcuno (tanti) non ce la fa, il corpo docente appiccica l’etichetta di dislessico e procede oltre.
    Sulla memoria della rete ci sarebbero molte cose da dire. Non è vero che si abbandona la narrazione, ma si perde la capacità di creare la narrazione a partire da singoli fatti, infobit, chiamateli come volete. In questo vuoto si infilano gli spacciatori di narrazioni ready made. Non per niente la rete è la patria elettiva dei cospirazionisti e delle leggende metropolitane. La potenza delle narrazioni è tale che prescinde dai fatti, con buona pace di Travaglio (anche la sua è una narrazione). A narrazione si contrappone narrazione, che si porta dietro fatti narrati, che hanno poco a vedere con i fatti e basta. Il tutto alla velocità della luce e con un attention span sempre più breve. Che però non implica che non ci sia imprinting. Anzi, si desidera spasmodicamente l’imprinting, per ridurre la confusione. Per eliminare il rumore di fondo, ci si aggrappa al primo filtro che capita, anche se non è un filtro, è un generatore di rumore travestito. Augh.

  • La fine delle storie e della narrativa è una prerogativa del mondo digitale e di Internet più ancora che della dannosa televisione. La tendenza è lo stare nellì’istante senza connessione con una storia né una prospettiva di ampia portata. Quando non c’è capacità di memoria né di ampia visione i politici possono allora contraddirsi da un giorno all’altro senza alcuna conseguenza.
    Sono d’accordo che è necessario salvaguardare il racconto e lo storia ma, ancora più importante, salvare gli spazi vuoti e il silenzio informativo.

  • Mica solo i politici, Ivo. Stai seguendo il balletto verde di Marpionne sulla vicenda Opel ? Imbarazzante, sia lui che l’infinita schiera di giornalisti aspiranti comparse del famoso film cult mai distribuito della coppia Totò-Fabrizi: “I leccaculo”.

  • Ivo Quartiroli wrote:
    “La tendenza è lo stare nell’istante senza connessione con una storia né una prospettiva di ampia portata.”
    Deve essere necessariamente così per sempre?
    http://bernyblog.wordpress.com/2009/05/23/abbiamo-davvero-voglia-di-imparare-e-condividere-cultura-online/
    … e offline (aggiungo)
    Peccato che Hawkins la butti un po’ troppo sul ridere nella sua presentazione. Se non avesse farcito il suo discorso di battutine (utili a che?), forse capirebbero tutti un po’ meglio anche il filo del suo discorso…

  • Comunque molto interessante. Grazie!!
    “It’s a poor sort of memory that only works backwards’, the Queen remarked.”
    Lewis Caroll, Through the Looking Glass

  • La più forte corrente di semiotica sostiene che non solo la base del senso, ma il principio generativo del pensiero è narrativo. Quindi non se ne esce, sia che avvenga in maniera minimale con il ritmo (Giulia Cerini, Il senso del ritmo), che si assuma come testo un oggetto complesso, come può esser il gusto estetico di un panorama naturale. Che ovviamente testo non è, ma la cui condanna del senso ci obbliga a semantizzarlo, necessariamente e lo diviene per noi.
    La scrittura quando sopravanzò all’oralità, permise di fare a meno della memoria a vantaggio dell’analisi. La delegò in un supporto. L’esternalizzazione è un principio economico e i costi sono di transazione. In quesot caso di pezzi di intelligenza che lasciamo in giro.
    Non ha caso il servizio di ricerca autoriferito è stato messo subito a punto. Non credo sia solo un esigenza narcisitica come l’hanno definta, ma forse è più per ritrovarsi.
    Le tencnologie sono deleghe, creano intelligenza distribuita si sa, ci danno fiducia di averle senza appesantirci con mnemotecniche apprensive. La possbilità di memorizzare tutto in una chiavetta o di sapere il server d’interesse ha accelarato la delega. Non credo sia un fattore negativo ma ha pro e contro in dipendenza degli scopi. Nei bambini è ragionavole pensare che non saranno come noi. Anche se quando sento parlare di vivacità e iperattività penso subito altre questioni che esulano dalle tecnologie di apprendimento. E posso sottovalutare.
    Perchè chi usa software per fare analsi con funzioni complesse e non saprebbe fare una divisione su carta? Ma in effetti basterebbe saperne il concetto e le applicazioni, non procedurizzarlo in scansioni, quello lo ha già fatto qualcun’altro, sarebbe uno spreco inutile. Fino a dieci anni fa bruciavamo tempo per operazioni e ricordarcene. Non credo che manchi la narrazione, almeno intesa come capacità di raccontare storie. C’è e anche di buon livello.
    Ho letto più volte questa indicazione emergere da buoni studiosi di trend. Sarà un mio limite ma non la comprendo. I valori condivisibili per ancorarla mancano, perché si avvalora il cambiamento, il superamento dell’esistente, che ha usi-usure rapidi.
    Non potrebbe esser diveramente, viviamo immersi nel valorizzare il nuovo, la velocità che succeda e dobbiamo prendere molte più decisioni in condizioni frettolose.
    Quante decisioni con esiti incerti dobbiamo assumerci in più rispetto a ven’anni fa? Quasi tutte, altro che tecnologia.

  • Emanuele, tutto giusto, il problema è che se una cosa la sai, ce l’hai in testa, non ti è sottraibile. Se la esternalzzi, basta impadronirsi del supporto è sei fritto. Se il software per fare le divisioni (estremizzo) fosse costruito in modo da tagliare decimali, e nessuno sapesse come si fanno le divisioni, chi se ne accorgerebbe ? I cristiani lo hanno capito subito (avevano buoni maestri, la storia ebraica è tutta una lotta per il controllo dei “testi”), quando distruggevano i libri dei dissidenti e modificavano quelli che non potevano distruggere tutti, inserendoci cose che servivano a loro (es. le modifiche di Eusebio a Giuseppe Flavio, scoperte solo perchè una copia sfuggì e venne tradotta in lingua slavonica, che a Roma non capivano). Il fatto è che esiste un solo modo per spiegare il concetto di divisione alle elementari, farle. Gli esseri umani sono animali economici, massimo risultato con il minimo sforzo. Se poi non si riesce a imporre il risultato, minimo sforzo e basta.

  • Incontrovertibile, se i risultati vengono impostati in alto, il trade off tra reach e richness o premia la selettività a discapito della comprensione per tutti o si abbassa l’asticella e tutti partecipano alla pappa fatta. Questa è la cornice oggettiva dei costi benefici e la cui risposta è di politica didattica. Il sistema ha un vantaggio maggiore producendo cultura bassa per tutti o alzando la posta senza voltarsi rispetto a chi rimane indietro? La famosa legalità del titolo, io credo che bisognerebbe voltarsi meno comunque. Senza badare ai benchmark statistici europei. La pigrizia trova giustificazione se c’è un obbligo alla lentezza. Questo non significa che ogni due anni devono inventare disturbi di personalità come da dieci anni a questa parte fanno. I fantapsicologi e tutti i rassicuratori di fantasmi a casa.
    Ammesso che nel continuum possa esistere un punto di equilibrio ottimale tra qualità-quantità, apolitico (siamo nell’iperuranio), la decisione dei contenuti da trasmettere è squisitamente politica però. Qui inizia la sterminata soria di nascondismi e magheggi, frantendimenti pilotati e traduzione false.
    Con un pò di cinismo penso che non possa esser diversamente e non sarebbe neanche un problema. La storia la scrivono i vincitori come si dice, i valori politici a maggior ragione. Ricordiamoci livello culturale, siamo al ribasso su tutti gli indicatori, quello preoccupante è la comprensione dei testi. Significa che i contenuti sono meno importanti dello stile sia per sedurre che come valore in sé. Ma questo assomiglia molto all’estetica della tv, al dire “mi piace come” piuttosto che il “sapere che cosa” si intende.
    A prescindere dall’estetizzazione, in tutta onestà, vedo più preocccupante il deficit d’insegnamento all’autonomia, poi vai a dire al furbo che copia che non è un eroe.
    Altro che contenuti manipolabili Marco, la facoltà di scienze della comunicazione recipì quel valore ambito del saper manipolare. Ora spiegare che la logica è migliore della chiacchiera è dura. E’ difficilmente sostenibile che sia anche più utile.

  • A quale universo si fa riferimento quando si parla di ‘siamo al ribasso’. All’Italia, all’Europa, al mondo?
    >A prescindere dall’estetizzazione, in tutta >onestà, vedo più preocccupante il deficit >d’insegnamento all’autonomia,
    Concordo. E come si fa giocare l’autonomia? Magari insegnando metodo e infondendo rigore intellettuale [più che cinismo], e forse anche non rinunciando a trasmettere passione, giacché per il disincanto prima o poi ci si passa lo stesso.
    Comunque, al di là di chi scrive la storia (o ci prova..), mi pare che nessuno – tranne chi è sospinto dalle istanze più retrive – possa demonizzare l’accesso a una pluralità di fonti da consultare e confrontare coniugando possibilmente più il verbo ‘convincere’ che il verbo ‘persuadere’.
    Più che d’accordo. Ma parlando di scuola, spesso, con qualche leggerezza, mi pare si demonizzi invece la tecnologia senza pensare al corpo insegnante – almeno in Italia – che sembra attraversare ancora qualche difficoltà nel distinguere, fra i vari strumenti a disposizione, ciò che aiuta da ciò che distoglie dagli obiettivi utili da perseguire e, soprattutto, al ‘come aiuta’ e ‘come distoglie’. Segno forse che qualche sforzo in più dovrebbe essere posto nell’educare proprio gli insegnanti che non sono nativi digitali a dialogare con i nativi, piuttosto che demonizzare tout court la tecnologia (o mandarla alle stelle, a seconda dei casi). Imparare a discernere e trovare equilibrio fra quantità e qualità. Tutti hanno bisogno di capire come integrare risorse diverse. Va da sé che si deve resistere alle banalizzazioni (da qualsiasi direzione esse arrivino, però… per esempio, trovo che continuare a dire che la storia la scriveranno sempre e solo i vincitori sia una consolidata forma di rappresentazione che aiuta a dipingere un universo ‘da laboratorio’ sul quale sia possibile fare previsioni assolute ed esercitare controllo [semplificazione o ipersemplificazione? ..anche alla luce delle tante domande – e altrettanti dubbi – che sorgono qui e altrove sulla formazione di consenso e l’agenda setting].
    Va da sé che diminuisca la centralità dei docenti nel processo di trasmissione della conoscenza, ma ciò non significa che essi debbano abdicare al loro ruolo – altrettanto importante – di intermediari esperti. Forse devono solo entrare nell’ordine di idee di essere ricercatori-insegnanti (vietato sedersi, in altre parole). Altro che tecnologia.. e dislessia.. mi verrebbe da dire semplicisticamente, ma lo confesso, non ho competenze per analizzare i dati sulla dislessia.
    A me pare che nella scuola ci sia ancora un panorama abbastanza frammentario di sperimentazioni – e in qualche caso improvvisazioni – tecnologiche, mentre c’è meno divulgazione di buone pratiche consolidate di quanto ci si potrebbe aspettare (e auspicare). Questa, trovo, sarebbe comunicazione utile. Sbaglierò, ma la stampa stessa (se non quella iperspecialistica)non mi pare occuparsene molto. Per esempio, che effetto avrà in concreto sui testi scolastici la circolare Ministeriale n° 16 che vincola le scuole ad avviare una progressiva transizione ai libri di testo online, o in versione mista, a partire dall’anno 2009-2010?
    Chiudo con un aneddoto. Qualche tempo fa ho sentito la Ministra M.S. Gelmini proporre la distribuzione di eserciziari nelle scuole per aiutare gli studenti a superare certi famigerati test che formano certi antipatici indicatori. Spero non siano proprio gli e-book a essere relegati a esperienze così riduttive…

  • Domanda innocente (lo giuro !!!); cosa vuol dire quando in un blog i commenti sono più lunghi dei post ?

  • che non c’è un word limit ;)))
    che i post offrono spunti sintetici, ma aprono su una varietà di possibili riflessioni
    che i commentatori in parte tendono a seguire un thread preferito e a svilupparlo più o meno ‘analiticamente’
    che alcuni commentatori ingaggiano anche ‘sub-conversazioni’ fra loro più o meno indipendenti dal post
    che i commentatori si lasciano anche prendere la mano spostandosi un po’ fuori tema rispetto al post, ciascuno di qualche grado, altri meno 😉

  • Non c’è nessuna “epidemia dislessica” poichè la dislessia e i dsa (disturbi specifici di apprendimento) non sono malattie e pertanto non si curarno e neppure si acquisicono. Tantomeno sono contagiose! Sono caratteristiche genetiche di origine neurobiologica: dislessici si nasce, non si diventa. Certo oggi c’è maggior consapevolezza tanto che molti adulti scoprono la loro dislessia per averla riconosciuta nel figlio. L’emergere della problematica, sino a pochi anni fa in Italia sconosciuta, non significa che la dislessia sia in aumento ma semplicemente che la si riconosce. Erano considerati stupidi e svogliati ed invece sono intelligenti e dislessici. Hanno solo un modo diverso di apprendere. Peccato che nessuno al convegno abbia saputo rispondere a quell’insegnante, evidentemente ben poco competente nella sua materia, l’apprendimento appunto!

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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