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I numeri di Gaspar

Sostenibilità dei giornali tradizionali? Bel post di Gaspar. E bella discussione su FF.

E’ pacifico che i numeri di Gaspar ispirano molte considerazioni: perché non sono molto facili da interpretare e perché se fossero statisticamente inequivocabili non lascerebbero dubbi sul fatto che i giornali tradizionali inefficienti rispetto a quelli nati su internet.

Ed ecco le mie considerazioni:
1. I dipendenti dei giornali tradizionali svolgono molti mestieri, quelli dei giornali nati su internet si forniscono di una quantità di mestieri svolti all’esterno. I giornali tradizionali svolgono all’interno molte funzioni legate alla distribuzione, al marketing, alla raccolta pubblicitaria, agli affari legali, alla gestione di una quantità di persone. E oltre a questo, cercano in qualche caso di trovare notizie originali. I giornali nati su internet prendono quasi tutte le funzioni citate da fornitori esterni, oppure da dipendenti che ne svolgono molte. Il confronto è tra organizzazioni antiche, fatte per gestire business integrati verticalmente, e organizzazioni di rete. Quali sono migliori? La storia non aiuta a rispondere: è più forte una grande azienda integrata o un distretto industriale? In certe fasi sono state più innovative e importanti le grandi organizzazioni, in altri sono apparse migliori le strutture a rete come i distretti. La risposta, probabilmente, in passato è venuta più che dal modello, dalla qualità delle persone che lo interpretano. E in prospettiva? Anche. Ma se la rete diventerà il contesto di riferimento per tutto, è chiaro che ci sarà una tendenza alla polarizzazione: grandissime organizzazioni “logistiche” e piccolissime organizzazioni “di contenuto”. Se resteranno aree a prevalente forma gerarchica allora anche le organizzazioni intermedie, dotate di qualche protezione o privilegio, potranno sopravvivere. E non sarà necessariamente un bene.
2. Il numero di lettori in rapporto al numero di giornalisti è un indicatore molto affascinante. Ovviamente bisognerebbe confrontare anche il valore dei lettori in termini economici (pubblicità più costo dell’accesso alle informazioni). Finora, il valore della pubblicità su carta è stato molto superiore a quello della pubblicità online: ma non è detto che questo non sia destinato a cambiare. Quanto al prezzo dell’accesso alle informazioni, nel caso dei giornali questo è suddiviso tra editore, distribuzione, dettaglio; nel caso della rete, è suddiviso tra abbonamento telco e ammortamento terminali, ma è anche spalmato su tutte le attività online e non solo sull’accesso all’informazione (in ogni caso molto raramente va anche all’editore).
3. Infine varrebbe la pena di valutare la qualità dei risultati. E’ ovviamente molto difficile prendere posizione in assoluto tra giornali tradizionali e giornali nati su internet. Ma un fatto è abbastanza chiaro: l’insieme dell’ecosistema dell’informazione è tanto migliore quanto maggiore è la varietà di alternative e la quantità di persone che se ne occupano, in chiara e leale competizione-collaborazione. Ma poiché non era questo l’argomento di Gaspar non vale la pena di svilupparlo.

La questione in questo momento è che le grandi organizzazioni hanno costi fissi molto alti. E quando perdono abbastanza da andare in rosso rischiano di attirare nel loro affondamento una grande quantità di opportunità di informazione e di professionalità giornalistiche. Mentre quando una testata online non va, la perdita per il sistema nel suo complesso non è così grande. Lo spostamento delle risorse pubblicitarie a favore della rete è stato uno dei motivi per cui i giornali nati su internet di questi anni tengono meglio economicamente di quelli tradizionali. Se la tendenza dovesse durare molto a lungo si potrebbe immaginare una serie di clamorosi fallimenti nei giornali tradizionali che aprirebbe ulteriori spazi per quelli online. Anche se resterebbe da verificare quanto il valore informativo di un ecosistema senza giornali tradizionali potrebbe essere sufficiente a rispondere a tutte le esigenze della popolazione. Del resto, va ricordato che una grandissima quantità di giornali online sono falliti e un’enorme quantità di blog sono stati abbandonati. Ma essendo piccoli non hanno fatto rumore. Anche se chi li ha visti nascere crescere e morire ha sofferto.

Il fatto è che un ecosistema dell’informazione sano è più importante di un editore sano. La ricchezza di alternative che si è creata in questi anni è andata chiaramente a migliorare l’ecosistema nel suo complesso. E anche dal punto di vista della libertà di espressione, come diceva la Freedom House. Ma non sappiamo quanta libertà perderemmo se dovessero sparire i giornali tradizionali. E’ possibile che ne saremo testimoni. Anche se non è per nulla certo.

I giornali online danno quasi tutto in outsourcing gratuito. Anche la raccolta di molte notizie. Se non avessero i giornali degli editori tradizionali sarebbero altrettanto efficienti?

Il vero tema è il costo della carta e di tutta la struttura organizzativa che è legata alla carta. Se non ci fosse quella, i bilanci dei giornali tradizionali sarebbero molto diversi. Ma dovrebbero essere diverse anche le loro organizzazioni. Radicalmente diverse. In quell’ipotesi, varrebbe il confronto operato da Gaspar: dipendenti/visitatori sul sito. In qualunque altra ipotesi però non varrebbe: perché i lettori dei giornali tradizionali sono quelli del sito, più quelli del giornale cartaceo, più quelli delle radio o dei giornali professionali.

Al Sole 24 Ore, in particolare, il gruppo nel suo complesso ha “visitatori unici” di riviste specializzate, diversi siti, radio, quotidiano, riviste, scuola di formazione, convegni…

Ma anche questo è un argomento parziale. Nòva, per esempio, ha per quanto mi è dato di sapere (non ho accesso ai dati quotidiani) tra i 200mila e i 600mila “visitatori” (perché il giovedì è migliore degli altri giorni…) ed è fatta da cinque persone dipendenti, più un bel numero di magnifici collaboratori. Che cosa vale, in questo caso? Il confronto dei lettori con i dipendenti o dei collaboratori? Insomma: i numeri di Gaspar sono affascinanti, ma la loro interpretazione è statisticamente troppo vaga per poter portare a conclusioni davvero stringenti.

La verità è che l’efficienza e l’intelligenza del prodotto di una singola azienda editoriale dipende dalla qualità delle persone che la popolano. Esattamente come l’efficienza e l’intelligenza del prodotto di un gruppo di due blogger associati per fare un giornale online. E che l’ecosistema è tanto più sano quanto più è fondato sull’infodiversità, sulla pulizia e sulla profondità culturale delle specie che lo popolano.

Un ecosistema ingessato da vent’anni di ipnosi mediatica migliora con una bella scossa di rinnovamento. Poi ci vuole qualche forma di ricostruzione. Nella quale è preziosa l’esperienza di tutte le persone di buona volontà. Le imprese possono fallire. Le persone capaci di contribuire però devono essere valorizzate. Ed è meglio poter contare su molte opportunità piuttosto che su poche.

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  • Bravo Luca, ottimo post, si integra molto bene con quello di Gaspar.
    Mi viene questa riflessione: ma non è forse giunto il momento di tagliare quei costi fissi, e concentrarsi sul valore aggiunto?
    Creare, ad esempio, una snella ed efficace piattaforma web, e lasciarla usare alle diverse “correnti” giornalistiche? Non è forse quello il modo migliore per ottimizzare i costi e permettere a tutti di “vivere” di questo mestiere?

  • Oh che bello, qualcuno che comprende il valore, presente ma soprattutto futuro, dei collaboratori esterni. Allora io mi chiedo: quando per esempio uno dei quotidiani prestigiosi d’Italia, La Stampa, paga meno (molto meno) di 100 euro (lordi) un’inchiesta, di che razza di mercato stiamo parlando? A Bologna, come, credo, dappertutto, ogni redazione locale, si chiami Repubblica o Corriere o Unità, un pezzo col quale riempire una pagina lo paga 20 euro. Il Carlino meno ancora. E il Sole? Come butta? l suoi magnifici collaboratori come se la passano? Anche questo, soprattutto questo, è mercato, vivaddio.

  • A me sembra che la discussione giornali-web-pubblicità si stia ingarbugliando perchè tiene conto di fatti contingenti (la crisi), di fatti strettamente americani, di fattori che non c’entrano con l’editoria (pompare ad ogni costo il gruppo editoriale per fa crescere il valore delle azioni), e non tiene conto di cose specifiche locali (in Italia bassissima scolarità e cultura) e di cose ormai assodate e incontrovertibili come quelle di McLuhan sulla temperatura dei media e del conseguente gradimento o meno del fruitore verso la pubblicità che invade il mezzo.
    L’accoppiata web e pubblicità non funziona, perchè essendo il web un mezzo che richiede coinvolgimento attivo dell’utente, ogni invasione pubblicitaria è un fastidio che viene semplicemente ignorato, o peggio, crea un effetto di avversione verso il brand che pompa il suo marchio attraverso un pop-up o un banner che nessuno clicca, così come nessuno risponde a un SMS pubblicitario.
    Ovviamente qualcuno dirà perchè si fa pubblicità sul web o sui cellulari?
    Perchè è una moda che, prima o poi, finirà e la pubblicità tornerà dove veramente funziona: la TV e la stampa, che non guardiamo per le notizie ma essenzialmente per vedere la pubblicità.
    D’altra parte perchè tutti fanno lo struscio per le stesse strade?
    Per vedere i negozi (che non richiedono coinvolgimento), e anche se non si deve comprare niente, perchè la pubblicità serve agli umani per essere fasati con il resto del branco cui si appartiene.
    La carta stampata non muore per colpa del web, ma perchè non fa il suo mestiere: dire la verità, per tempo, e non sottacerla perchè, se diciamo male delle banche, poi queste deprimono le azioni del gruppo editoriale.
    Se i giornali “strillano” verità, la gente compra, ovviamente con la scusa di leggere le verità, ma con la non espressa intenzione e ferma volontà di leggere, fra un titolo e l’altro, la pubblicità, che era, è e sarà l’unico modo di far vivere un mezzo.

  • Vero è anche che, col tempo, molti dei giornalisti dipendenti diretti delle testate sono stati messi a fare cose “altre” dal giornalismo, per esempio l’impaginazione, grazie – o meglio a causa – dell’introduzione e interpretazione sbagliata delle nuove tecnologie informatiche.
    Con il risultato che anche e soprattutto nei giornali “storici” (non tradizionali) i redattori stanno disimparando a fare i giornalisti, ad avere il senso della notizia, e la scrittura viene demandata agli esterni. Non alle “firme”, ai collaboratori, ma a surrogati dei giornalisti, che magari sono anche più bravi o potrebbero diventarlo, ma divengono solo appendici della redazione.
    Questo ha portato da una parte a prodotti copia-e-incolla, soprattutto nelle pagine generali, e alla perdita di “lettura” della situazione in quelle locali o specialistiche.
    E questo è gravido di pessime conseguenze sia che il giornale continui su carta, sia che vada su e-paper o sul web. Per il quale, peraltro, non penso ci sia un modello di sostenibilità economica ancora certo.

  • Il mestiere è completamente cambiato, l’inizio della fine è stato il passaggio dalla compisizione a piombo da quella a freddo. I costi iniziali si sono abbattuti e sono nati centinaia di giornaletti che non pagavano nessuno ma comunque toglievano copie a quelli in regola.
    In dieci anni il sistema è imploso, ciascuno di noi è adesso una sorta di poligrafico che impagina notizie non verificate prese da agenzie e siti.
    Eppure ci sarebbe tanto da lavorare, ma se gli editori pensano che si possano fare giornali senza giornalisti c’è poco da fare. E il web non è la soluzione perché stiamo parlando di un mestiere difficile che si apprende a bottega.

  • Segnalo a questo proposito un articolo molto molto interessante (con ampie dosi di provocazione) di Valerio Lo Monaco sul n.8 de “La Voce del Ribelle”, intitolato “Info e desolazione”.

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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