Il dibattito sulle relazioni tra i sistemi legali locali e i nuovi modelli di business come quello di Uber è piuttosto rilevante e porterà inevitabili evoluzioni nel sistema delle rendite ma anche miglioramenti nella qualità dei servizi di queste piattaforme. Molti articoli in materia ne segnalo uno del NYTimes.
Ma un lato più semplice va sottolineato. Queste aziende come AirBNB, Uber e altre, non hanno più molto a che fare con concetti come sharing economy o peer-to-peer, a mio avviso. Sono piattaforme che organizzano lo scambio di informazioni e servizi tra persone, prendendo una fetta del denaro scambiato. Il peer-to-peer si sviluppa quando tutto il valore è nello scambio tra persone e la piattaforma non fa che facilitarlo. La sharing economy avviene quando il centro è lo scambio di tempo, asset, capacità, governato da una cultura più solidaristica che finanziaria, sempre a mio avviso. Altrimenti lo sharing diventa exchange. Niente di male: queste aziende creano marketplace e fanno profitto con l’intermediazione con la stella polare della quotazione in borsa, cioè sono più finanziarie che solidaristiche. L’ambiguità deriva dal fatto che l’offerta di servizi e beni è un modo per valorizzare asset delle persone che non svolgono quel lavoro come prima attività e in modo prioritario: sicché queste piattaforme sembrano aiutare chi ha bisogno di trovare entrate economiche ulteriori valorizzando qualcosa che hanno e che non monetizzano. Ma è forse tempo di superare questa ambiguità. Chissà che cosa ne pensano i commentatori…
Concordo in pieno.
Direi che per stabilire se è vera sharing economy dobbiamo assicurarci che chi ‘crea’ valore lo ‘cattura’ nello stesso modo dagli altri peers.
Altrimenti Uber e simili non possono appropriarsi del termine sharing. Fine dell’ambiguità.
[…] Superando le ambiguità nel termine sharing economy […]