Da un pezzo scritto per Aspenia sul libro di Carlo Ratti, Architettura open source:
“Il digitale si fonde nell’ambiente, accelerando e generalizzando l’innovazione. L’architettura non può esimersi dal partecipare a questa evoluzione. Ma come? Continuando a pensarsi come il frutto – eroico o dittatoriale – del genio individuale che impone la sua visione al mondo? O abbandonando il campo alle dinamiche spontanee, collettive, dettate dalla complessità della vita attuale? Architettura dei professionisti o architettura dei cittadini? Forse è sempre stata altrove la risposta: dai fallimenti leggendari à la Le Corbusier alle interpretazioni devastanti del vernacolo architetturale nella sua applicazione all’urbanistica dei capannoni industriali, non basta mai il genio né mai è sufficiente la pratica senza riflessione. Forse l’architettura che funziona è sempre stata un dialogo: o meglio ancora è sempre stata il frutto di una grande deliberazione civica, impicita o esplicita, che senza togliere voce alle idee dei più sofisticati interpreti l’ha immersa nella dinamica culturale e organizzativa più ampia e comprensibile dei molti punti di vista sociali. Ma come si adatta questo processo alla sfida del presente? Come si realizza questo metodo multistakeholder di generazione architettonica utilizzando al meglio l’esperienza dell’internet?
Una risposta – tra le diverse possibili – sta emergendo dalla cultura sviluppata a partire dal 2001 in un seminterrato del Massachusetts Institute of Technology affollato di macchine semplici o sofisticatissime connesse a computer e dove studenti, professori e ricercatori con la comune passione degli artigiani-designer-hacker fabbricavano i loro oggetti. Quell’esperienza è diventata un caso globale quando, seguendo la visione di Neil Gershenfeld, si è trasformata riorganizzandosi in modo da diventare aperta e replicabile e avviando il movimento dei Fab Lab: laboratori accessibili per l’esplorazione educativa della relazione tra le informazioni digitali e la loro manifestazione fisica. Carlo Ratti era lì. Ed da quel seminterrato è uscito senza perdere la sua umiltà di ricercatore ma con l’entusiasmo di chi aveva scoperto una via importante per lo sviluppo dell’intelligenza progettuale”.
Neil Gershenfeld racconta la sua esperienza su Edge: Digital Reality.
…Today, you can send a design to a fab lab and you need ten different machines to turn the data into something. Twenty years from now, all of that will be in one machine that fits in your pocket. This is the sense in which it doesn’t matter. You can do it today. How it works today isn’t how it’s going to work in the future but you don’t need to wait twenty years for it. Anybody can make almost anything almost anywhere.
…Finally, when I could own all these machines I got that the Renaissance was when the liberal arts emerged—liberal for liberation, humanism, the trivium and the quadrivium—and those were a path to liberation, they were the means of expression. That’s the moment when art diverged from artisans. And there were the illiberal arts that were for commercial gain. … We’ve been living with this notion that making stuff is an illiberal art for commercial gain and it’s not part of means of expression. But, in fact, today, 3D printing, micromachining, and microcontroller programming are as expressive as painting paintings or writing sonnets but they’re not means of expression from the Renaissance. We can finally fix that boundary between art and artisans.
…I’m happy to take claim for saying computer science is one of the worst things to happen to computers or to science because, unlike physics, it has arbitrarily segregated the notion that computing happens in an alien world.
Vedi anche:
Il caso di Trieste
Il caso di Matera
ma io dico: se non si conosce una materia, perché ci si deve esprimere a riguardo? I FALLIMENTI di Corbu, ma cosa cazzo stai dicendo? lo sai che la cupola di Brunelleschi ha seri problemi strutturali? è un fallimento? di cosa parli?
Il programma utopistico di Corbu non è riuscito.. Non è che l’utopia debba realizzarsi perché il suo senso è essenzialmente culturale. Ma lo schema di lavoro open è una nuova strategia. Hai per caso letto il libro di Ratti? Vedrai che rispetta enormemente la grande architettura del passato, ma va avanti. Quanto alla violenza del tuo linguaggio, è tutta tua: te la lascio volentieri
Eccetto che tali FabLab, invece di fabbricare, primariamente assemblano componenti che sono talmente proprietarie, oscure e pieni di vulnerabilità/backdoor che (1) fanno si che l’eventuale successo in larga scala il larga misura sia sfruttato molto probabilmente dai proprietari di tali componenti e (2) li rendono facilmente trasformabili in sistemi di spia degli utenti da parte di tali proprietari, stati e/o criminali più o meno avanzati.