C’è questa locuzione, “offerta politica”, che rispecchia l’idea che la convivenza civile si possa decidere usando la metafora del mercato. Si parla di offerta politica per descrivere la varietà delle posizioni dei partiti intesi come organizzazioni che promettono soluzioni politiche in cambio di voti. Se così fosse, la politica sarebbe un “bene esperienza” e si pagherebbe, in voti, prima di vedere se vale il prezzo pagato. È chiaro che si tratta di un’impostazione insufficiente.
In un contesto fiducioso, il meccanismo dei “beni esperienza” funziona. I consumatori pagano per esempio un giornale – o un qualsiasi bene esperienza – prima di averlo letto, per poi scoprire se valeva il suo prezzo e lo fanno in base all’esperienza che hanno fatto in passato con la testata: sono indotti dall’esperienza a pensare che anche in futuro la testata manterrà il suo impegno: allo stesso modo gli elettori votano sulle promesse, il nome e il senso di appartenenza, in base all’esperienza che hanno delle elezioni precedenti. In un contesto poco fiducioso, però, l’esperienza non induce a votare ma ad astenersi o a protestare. Quando protesta e astensione raggiungono il limite di paralizzare il paese ed emergono nuovi motivi di speranza, allora il ciclo della fiducia riprende. Ma in quel momento, se si resta nel contesto problematico di cui sopra, si mette da parte l’esperienza della singola offerta politica e si decide di votare “turandosi il naso”. Perché la politica non è come il consumo. È molto più complessa. Dunque la locuzione “offerta politica” non vale sempre.
L’elaborazione consumistica ha inciso sulla realtà politica, per esempio, inducendo tutti i partecipanti alla competizione elettorale a usare un linguaggio banalizzante e iperveloce. A differenza del mondo dei consumi, però, la politica ha mantenuto un linguaggio ambiguo ambiguità tipico di chi non sceglie il proprio target ma tenta di aggregare più persone possibile.
Per descrivere la situazione attuale, dunque, occorrerebbe avere una semplificazione di pensiero che non sia una banalizzazione.
Si è parlato di una tripartizione tattica, negli ultimi tempi, con i tre poli politici italiani descrivibili in termini di tre diversi atteggiamenti nei confronti dei problemi:
– cavoli miei (quelli che cercano soluzioni soltanto pensando ai propri interessi)
– cavoli nostri (quelli che cercano soluzioni immaginando che debbano servire a tutti)
– cavoli loro (quelli che comunque danno la colpa a qualcun altro)
Ma non basta più. È chiaro ormai che non si risolvono i problemi ribaltandoli sugli altri.
La nuova tripartizione potrebbe essere:
– low cost
– high end
– all inclusive
Low cost. Una politica che si concentra sulle spese di chi ha meno, sui bassi salari, sulla scarsa qualità di tutto, purché sia alla portata di chiunque.
High end. Una politica che suppone che aiutando i più ricchi, la loro fortuna economica trascini prima o poi anche il resto della società verso una maggiore ricchezza.
All inclusive. Una politica che pensa alle variabili che hanno maggiore impatto per il sistema cercando di includere tutti nell’elaborazione e nei vantaggi di un salto di qualità.
I primi due atteggiamenti richiedono poca ricerca e tanta appartenenza. L’ultimo richiede molta ricerca e una buona dose di ragionevolezza.
In economia, tutto questo significa scegliere tra un mondo di consumatori o di lavoratori, di risparmiatori o di investitori, di conservatori o innovatori.
Si tratta di semplificazioni che descrivono forse gli atteggiamenti prevalenti in alcuni dei partiti attuali ma sono piuttosto trasversali. Forse non servono a nulla. Forse aiutano a inquadrare situazioni che si vedono in giro e che solo se identificate possono essere corrette.
Al di là degli scherzi, occorre fare un salto di qualità. I primi vent’anni del millennio sono stati una corsa trasformativa basata su piattaforme banalizzanti. I prossimi devono servire a trovare il discernimento e la qualità che servono alla vita per essere degna di essere vissuta.
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