Dinsinformazione. Un pericolo per la democrazia. Un pericolo per la stabilità finanziaria. Un pericolo per la sanità pubblica, per le scelte fondamentali delle famiglie, per la tenuta della società. Ce ne occupiamo in questo post soprattutto percorrendo a volo d’uccello alcune letture recenti e meno recenti.
Strategia. Moltiplicare la diversità delle piattaforme
Vincoli. La diversità è ricchezza non divisione
Difficoltà. L’Italia è un caso particolarmente grave
Nel corso della guerra, la disinformazione a scopo politico diventa parte dell’artiglieria d’assalto, mentre la propaganda si contrappone come una sorta di contraerea. La corrispondenza tra quello che si comunica e quello che è reale si scioglie ogni giorno di più. Del resto, come dice Manuel Castells, il potere più grande è il potere che si esercita sulle menti, attraverso il controllo della comunicazione. Non è facile comprendere che fare. Occorre una visione strategica. Ma sistemica.
Una via interessante è la moltiplicazione delle piattaforme. È interessante ma non facile, proprio perché l’approccio deve essere sistemico per potersi confrontare con la complessità.
L’ipotesi di sciogliere il monopolio politico della comunicazione che sopravviene in guerra in una moltiplicazione di diverse piattaforme avrebbe ovviamente il vantaggio dell’infodiversità, ma con la numerosità delle piattaforme aumenta la difficoltà di monitoraggio o di construzione di uno spazio comune e si potrebbe aprire a una polarizzazione tra spazi relativamente sani e bassifondi della rete: probabilmente è una strada adatta alla democrazia ma deve essere qualificata in qualche modo da un grande insieme di produttori di informazioni di qualità.
Nell’ecosistema, molti elementi hanno un valore immenso. Le strutture delle piattaforme e delle grandi narrative sono responsabili dell’ordinamento della conoscenza. I messaggi sono anche importanti in quanto richiamano i modelli di interpretazione congiunturali che si contrappongono. In questa complessità, una forte comunità di produttori di conoscenza qualificata – nel senso di conoscenza documentata, accurata, relativamente più interessata a far sapere come stanno le cose più che a far credere di sapere – è necessaria per costruire un ambiente mediatico tale da incentivare nelle differenze anche le dinamiche coesive.
Diversità deve essere ricchezza e creatività ma non deve essere divisione: in una società democratica, c’è bisogno di confronto critico ma purché si svolga almeno in parte su un terreno comune. Non c’è la ricetta per andare in questa direzione. Occorre una ricerca, importante, urgente, necessaria, partecipata.
Alcuni libri sono ricchi di conoscenze necessarie per sviluppare questa ricerca.
Un classico come il libro di Manuel Castells, “Communication Power” (Oxford University Press 2009) va letto. Contiene già la maggior parte delle considerazioni che si fanno attualmente. «La mente del pubblico viene modellata in gran parte attraverso processi che si svolgono nei media» dice Castells (p. 157), che richiama i tre processi attraverso i quali l’accesso alle notizie influenza il modo in cui le persone percepiscono sé stesse in relazione al mondo: agenda setting, priming, framing. Nel mondo analogico tutto questo avveniva per la spinta dei prodotti informativi principali, nel mondo digitale la questione si è complicata, anche perché le strutture delle piattaforme e delle grandi narrative si sono imposte all’attenzione molto più dei prodotti informativi.
I libri dell’attualità arricchiscono di fatti le visioni strategiche dei pionieri come Castells.
David Chavalarias, nel suo libro “Toxic data” (Flammarion 2022) analizza un’ipotesi fondamentale: «Il modello economico attuale delle Big Tech, fondato sulla mercificazione dell’influenza sociale, è incompatibile con la durata delle democrazie» (p. 13).
È un’opinione fondamentalmente condivisa da Stefano Feltri, autore di “Il partito deglii influencer” (Einaudi 2022) che esordisce così: «Le opinioni espresse sui social sono in vendita. Tutti noi possiamo diventare influencer, costruirci un pubblico, e poi mettere all’asta la nostra reputazione e la nostra influenza in quella che è ormai la dimensione prevalente della nostra vita. Se diventa impossibile distinguere quello che è autentico da ciò che è pubblicità o, peggio, manipolazione, la qualità del nostro spazio pubblico digitale è a rischio. E se pochi individui, forti di un vasto seguito, possono usare la loro visibilità e influenza per indirizzare milioni di persone là dove è richiesto dal commintente, allora anche la nostra democrazia viene messa in discussione» (p. 3).
In Italia tutto questo appare particolarmente grave. Proprio perché la tenuta del sistema che dovrebbe salvaguardare il terreno comune è particolarmente debole. Ne parla Giuliano da Empoli nel suo “Gli ingegneri del caos” (Marsilio 2019) soprattutto nel capitolo intitolato “L’Italia, Silicon Valley del populismo”. «La vera causa che spiega la straordinaria permeabilità dell’Italia rispetto allo Zeitgeist è la debolezza delle sue élite». Dante descriveva l’Italia come una “nave senza nocchiere”. «Una vera e propria classe dirigente, selezionata sulla base del merito e delle competenze, da noi non c’è mai stata». Conseguenza: «in Italia esiste certo un’élite, costituita dalle persone che occupano posizioni di vertice nel mondo dell’impresa, dell’amministrazione, dei media e della cultura, ma questi personaggi non diventano mai classe dirigente perché non sono dotati di alcun genere di patrimonio simbolico comune» (p. 132).
E in mancanza di punti di riferimento culturali accomunanti, si generano caotiche forme di circolazione di informazioni autoreferenziali, tribali, partigiane, senza una dinamica chiara di rigenerazione delle idee creative, con una prevalenza di convinzioni convenzionali. Il che sfavorisce una critica metodologicamente sofisticata e favorisce la disinformazione. E Antonio Nicita in “Il mercato delle verità” (Il Mulino 2021) mostra come questo generi problemi difficili da risolvere: «La disinformazione polarizza e la polarizzazione riguarda anche il dibattito sull’esistenza stessa della disinformazione. Il fatto che porsi il problema della disinformazione e del suo rapporto con la fragilità delle democrazie sia diventato un tema partisan, di partigianeria e faziosità politica, come direbbero gli studiosi americani, è un fenomeno che merita esso stesso un approfondimento» (p. 25).
Nell’ecosistema, le responsabilità delle piattaforme sono immense, come del resto quelle dei produttori di ideologie e narrative strutturali che influenzano in modo profondo l’organizzazione della conoscenza nello spazio e nel tempo mediatico.
Le normative avranno un ruolo, forse, per attivare una diversità di alternative e frenare il potere dei monopoli attuali. Ma la risposta propositiva arriverà dai produttori di informazione, interpretazione, cultura dotati di un metodo qualificante per le conoscenze che comunicano. I custodi della qualità tradizionali potrebbero tornare in gioco: esempi sono i musei, i teatri, le biblioteche, gli archivi ma anche le università, e forse persino alcuni giornali. Ma occorreranno anche altre forme di comunicazione delle informazioni di qualità – cioè documentate, accurate, indipendenti dalle fonti, orientate a servire il pubblico e le prospettive comuni tra le persone – nate nella contemporaneità. La storia non è finita. È appena cominciata.
Foto: “disinformation is king” by ramtops is licensed under CC BY-NC-SA 2.0.
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