«…nulla potrà cancellare il fatto che, in un angolo marginale del cosmo, è esistita una specie in grado di comprendere la propria finitudine e di sentirsi libera di sfidarla».
Così termina il romanzo di Albert Camus e Jacques Monod immaginato da Telmo Pievani sulla scorta degli appunti che la morte dei due premi Nobel ha impedito diventassero altrettanti libri. “Finitudine” è il romanzo della scrittura di un romanzo sull’unica certezza che gli umani possono avere nella vita. Finiranno. Come finirà la Terra, come finiranno il Sistema Solare, le galassie e tutto il resto per come lo si conosce.
È un romanzo sull’incontro tra la scienza e la letteratura. È un tributo ammirato al pensiero, ma anche alla biografia militante, di due persone che nella vita hanno lasciato tracce indelebili. È un’epica ricerca sui motivi per cui – data la finitudine, grazie alla finitudine – la vita è tanto importante. È un percorso filosofico tra le domande sul desiderio di annullare la morte e le risposte spietate che si trovano nelle profondità dell’esperienza. È un elogio del ricordo dei 100 miliardi di umani vissuti e morti dall’inizio dell’evoluzione di questa specie.
È anche una dimostrazione del fatto che la poesia non è l’opposto della prosa. Ma una dimensione della vita vissuta pienamente che le parole possono evocare, se sono autentiche.
Leggendo:
Telmo Pievani, Finidudine, Un romanzo filosofico su fragilità e libertà, Raffaello Cortina Editore 2020, 280 pagine, 16 euro.
Quotes:
«Io direi che l’evoluzione è un’esplorazione di possibilità», p. 151
«Se sottraiamo il nulla che ci precede al nulla in cui torneremo, qualcosa rimane. La differenza, lo scarto, è che il nostro Io cosciente è esistito», p. 185
«Ma la morte, per noi, non esiste: quando ci siamo noi, lei ancora non c’è; quando c’è lei, noi già non ci siamo più», p. 218
«Noi siamo i progetti per cui lottiamo, non la somma delle nostre rinunce», p. 220
«Senza la morte non c’è futuro», p. 255
«Si dice che la morte sia una livella, uguale per tutti. Ma non è così. Certo, la morte non rispetta gerarchie, ma la morte non è la stessa per tutti. Ognuno ha la sua morte: bella, brutta, banale, lungamente attesa, ingiusta. Come il sonno, arriva solo quando smettiamo di pensarci, quindi sempre di soppiatto», p. 257
«Suoniamo tutti nell’orchestra del Titanic, ognuno con il suo spartito», p. 259
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