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In difesa della storia. Proprio ora. Per il futuro

Occorre un’apologia della storia.

La società contemporanea ha bisogno di consapevolezza storica, dal punto di vista intellettuale, come la vita ha bisogno di aria e nutrimento. Difendere la storia sta diventando una battaglia importante, che può contribuire superamento della scioccamente triste, disorientata, talvolta incomprensibilmente drammatica fase attuale della vicenda umana.

L’abolizione della storia, nella cultura attuale, è probabilmente uno dei più gravi attentati alla speranza, alla logica, alla progettualità. È un grande gesto di potere, esercitato dalle entità che governano il mondo. La conoscenza storica è un loro umile avversario, che tentano di schiacciare in ogni modo. È un esercizio che conducono con un accanimento che appare sproporzionato ma che in realtà si spiega: i grandi poteri attuali sembrano favoriti dalla distrazione e inconsapevolezza dei loro sudditi.

Certo, bisogna ammettere che il tentativo di mettere in secondo piano o dimenticare del tutto l’analisi storica si inserisce in un contesto nel quale è facile sentir criticare qualunque genere di ricerca rigorosa: i più popolari politicanti si avvalgono della facoltà di dire ciò che ai loro elettori piace sentirsi dire, con grande indifferenza per la realtà dei fatti e lo studio che conduce a conoscerla. Nel disprezzo per gli “esperti” che molti politicanti popolari dimostrano, l’indifferenza per la storia è particolarmente grave: perché serve come base di partenza per ogni altra indifferenza nei confronti della ricerca, in quanto l’esperienza umana è fondamentalmente un progresso della conoscenza degli umani, mentre ogni pratica di soggezione e soggiogamento passa per la distruzione della conoscenza e la costruzione di credenze, superstizioni, convinzioni prive di fondamento. Ma profondamente consolatorie. La storia è la disciplina che avvicina gli umani a sé stessi, senza imbrogliarli, liberando le loro possibilità di pensare con la propria testa. Occorre un’apologia della storia.

Vediamo perché.

Marc Bloch scrisse l’Apologia della storia nel pieno della II Guerra Mondiale, nella Francia occupata, lavorando con un nome di fantasia per sfuggire alle leggi razziali, prima di entrare nella resistenza. Sarà Lucien Febvre, il suo maestro e fratello intellettuale, con lui fondatore delle Annales, a recuperare il testo e pubblicarlo dopo la Guerra, perché nel 1944 Bloch era stato arrestato e fucilato. In quel contesto percorso da uno dei movimenti più feroci della storia, Bloch ha scritto uno dei libri più belli che siano mai stati scritti sul mestiere di storico e la funzione liberatoria della sua disciplina. Il titolo era una risposta a un dibattito avviato da una genia di intellettuali che non consideravano importante lo studio della storia. Ma nel contesto disumano della politica nazista diventava anche un’epopea del valore umanizzante della disciplina storica che per Bloch cerca in ogni anfratto il ruolo, la responsabilità, la creatività degli umani. Sicché la sua stessa argomentazione non si limitava a una sorta di teorizzazione dell’epistemologia storica, ma assumeva la forma ben più coraggiosa dell’umile racconto del “mestiere dello storico”.

Ebbene. Come si diceva, se c’è un’epoca in cui la storia è sottovalutata, in cui logiche disumane sembrano avere il sopravvento sulla vicenda umana, se c’è un’epoca in cui c’è bisogno di umanizzare il racconto degli umani, quell’epoca è proprio questo inizio del nuovo Millennio. L’apologia della quale c’è bisogno ha una forma diversa e una sostanza simile. Ovviamente, il contesto è molto diverso: mentre ai tempi di Bloch la storia era maltrattata, reinventata, combattuta, oggi si direbbe che sia semplicemente ignorata. Mentre la disumanità del nazismo era nella sua sanguinaria macchina della guerra e del genocidio, la disumanità odierna è nella disattenzione superficiale per l’umano, nel disprezzo per i valori, nell’oggettivazione algoritmica delle strutture fondanti della vicenda sociale, dalla finanza di giù. Le preoccupazioni non mancano: ci sono gli algoritmi che fanno funzionare i derivati, prodotti finanziari che, se usati male, si dimostrano capaci di distruggere intere economie, e che danno l’impressione di una finanza senza controlli; ci sono le intelligenze artificiali che governano organizzazioni e aziende in modi incomprensibili ai più, o forse addirittura a tutti, e che prendono decisioni algoritmiche sulla pelle degli umani; ci sono macchine che governano la vita dei lavoratori invece di essere al loro servizio; ci sono sistemi democratici che si lasciano hackerare da disinformatori senza scrupoli capaci di usare i social network ai loro scopi decostruttivi; ci sono sistemi sovranazionali che non sanno affrontare le più elementari decisioni relativamente ai più importanti problemi del pianeta, come il cambiamento climatico e la crescente distanza tra il vertice e la base della piramide sociale. E così via. Tutto questo avviene nell’inconsapevolezza, nella superficialità, nel disinteresse per il lato umano della vicenda umana. Un tema che sarebbe posto diversamente se ci fosse maggiore consapevolezza storica. Basti pensare, per dimostrarlo, alla tendenza delle economie a ripetere costantemente gli stessi errori fidandosi delle sirene finanziarie: le bolle di irragionevole esuberanza si succedono inesorabilmente una dopo l’altra conducendo alla rovina intere parti della popolazione umana, anche perché le società sembrano sistematicamente condotte a dimenticare le analoghe crisi che hanno vissuto in precedenza e che, se ricordate, condurrebbero a comportamenti molto più prudenti.

Ma ci sono molti motivi per resistere all’abolizione della storia che la tecnologia, la finanza e le altre forme del potere che si esercita sulle coscienze degli umani sembrano imporre.

Già. Perché sembrano proprio imporla, eccome.

Non è soltanto quella tendenza superficiale del frasario americano – cultura egemone, ancora e nonostante tutto, in Occidente – a riferirsi ai fatti o alle persone o alle organizzazioni che si ritengono superate definendoli “storia”, paradossalmente proprio per invitare gli interlocutori a dimenticarle. In quella cultura, il disprezzo per l’utilità della memoria e per l’analisi storica si motiva anche come sottolineatura dell’apprezzamento per il futuro e per la strada che si deve seguire per raggiungerlo.

Del resto, l’incistamento nel passato che non passa, tipico di popoli meno innovativi e più intimoriti dal futuro – e nel Mediterraneo se ne incontrano diversi – non aiuta ad apprezzare la storia: che in quei casi diventa vincolo ideologico o palla al piede culturale, ma non fonte di ispirazione per guardare consapevolmente avanti.

C’è di più in quest’epoca antistorica. Ci sono i media digitali, o meglio, c’è la loro interpretazione attuale. Macchine di un iper-presente – come ha detto Remo Bodei – che rendono tutto ciò che è registrato accessibile allo stesso modo, in una forma omogeneizzante: un minuetto settecentesco, un’opera lirica ottocentesca, un capolavoro rock e l’ultima rielaborazione rap si trovano, volendo, nella stessa identica finestra del computer o si ascoltano nelle cuffie musicalmente omogeneizzanti dello stesso telefono intelligente. La differenza tra i contesti originari dei brani culturali non si percepisce, esce dall’esperienza, illude che non esista. Molto più che alla fine della distanza geografica, la rete digitale, nella sua attuale interpretazione, ha contribuito alla fine della distanza storica. L’interfaccia nega la storia con tutta la forza della sua apparente ovvietà.

Anche perché l’accelerazione percepita nell’innovazione socio-tecnologica che il digitale ha suggerito nel nuovo Millennio spinge a concentrare l’attenzione su quanto sta accadendo, mettendo un po’ sullo stesso piano ogni novità che conquista l’attenzione, presentata come parte di un fiume di mutazioni ineluttabili. La consapevolezza della pluralità delle durate del tempo sociale, con fenomeni che durano a lungo e altri che si esauriscono nel giro di poco tempo, con novità che sono prive di conseguenze e altre che ne generano in grande quantità, non è esperienza dei contemporanei, ingabbiati apparentemente solo nell’osservazione o iperconcentrati solo sul desiderio del nuovo.

E non per nulla l’ideologia tecno-tecnica dichiara che il cambiamento in atto è tanto profondo e generale – come nella frase spesso ripetuta dai suoi tifosi che suona più o meno come “cambia tutto” – da provocare un salto storico, un passaggio di paradigma, come si dice, che viene tradotto nell’impossibilità di comparare il presente e il passato, che si traduce dunque nell’inutilità della conoscenza del passato.

Ma in realtà, mai niente cambia tutto. Le persistenze, anzi, servono proprio a comprendere il cambiamento, a discernere ciò che è importante, a considerare criticamente ciò che avviene per indirizzarlo in modo più intelligente.

Mai come in questo presente tanto presente, l’apologia della storia è necessaria. Per arricchire la prospettiva. Per guardare lontano con consapevolezza. Per discernere tra l’innovazione e ciò che è semplicemente nuovo. Per costruire il futuro con attenzione alla profondità delle conseguenze che i valori di coloro che progettano l’innovazione, immettono nei risultati della loro azione.

“Il fine è nei mezzi come l’albero nel seme” diceva il Mahatma Gandhi.

Unisce percorsi che ci si dimentica di unire. Per questo è tanto rilevante la lezione di Giorgio Meletti tenuta alla Sissa qualche settimana fa e condotta sul filo della rilettura dell’apologia della storia di Bloch. Il compito di chi costruisce il futuro è anche il compito di chi comprende la società, attingendo a tutta la conoscenza che può scaturire dalla storia. O meglio, dai mestieri convergenti dello storico, del giornalista (nel migliore dei casi) e del letterato. Già. Mestieri che sono discipline. E talvolta arrivano a diventare scienza. O più spesso percorso originale di conoscenza.

Sì, anche la letteratura lo è. Eccome. Non occorre ricordare che Marshall McLuhan era un critico letterario che con gli strumenti della ricerca letteraria ha cambiato per sempre la ricerca culturale e mediologica. Per questo occorre riprendere il passaggio di Bloch quando assorbe l’estetica del linguaggio nella ricerca storica: «I fatti umani sono per definizione fenomeni delicatissimi, molti dei quali sfuggono alle determinazioni matematiche. Per esprimerli bene e, di conseguenza, per bene intenderli (si comprende mai perfettamente quel che non si sa esprimere?), occorrono grande finezza di lingua e giusto colorito nel tono espressivo. Dov’è impossibile calcolare, bisogna suggerire» (p. 42).

Grande. «Dov’è impossibile calcolare, bisogna suggerire».

Naturalmente così ci si avventura in un percorso rischioso. La finzione dell’oggettività dei numeri è sempre più difendibile della finzione dell’oggettività delle parole. Ci si difende coltivando il rispetto per le fonti, per l’umanità che le genera e le interpreta: costruendo una cultura del rispetto. La storia ne è una delle fondamentali palestre. Il peggiore peccato dello storico è l’anacronismo, il disprezzo per il contesto e il suo insieme di significati: lo storico rispetta il contesto e le persone che lo abitano, comprese le tracce che lasciano e che possono essere usate per entrare in contatto con loro.

Il che conduce alla speciale comprensione di ciò che raccontano le persone con le tracce che le loro vite lasciano all’interpretazione degli storici. Una speciale comprensione che è composta di attenzione, cura, discernimento, appunto. Non tutto è nuovo, non tutto è unico, anche se ogni vita è speciale e ogni vicenda è meritevole di attenzione. Lo storico non è nelle mani delle fonti: è un interlocutore critico. Fa domande. Non si fida delle prime impressioni. Verifica. Adotta ogni strumento che la scienza possa offrire.

Ce n’è bisogno oggi di senso critico quanto c’è bisogno di rispetto.

Quante volte oggi ci ripetono che “per la prima volta” è stato fatto questo o quello. E quante volte si trovano, cercandoli, i precedenti. È un po’ il passaggio che Bloch fa contro l’ossessione delle origini: come se si potesse trovare il punto di inizio di qualunque cosa. Come se si potessero definire le cause di qualunque fenomeno. In realtà, questi approcci, cronologico o deterministico, si sciolgono – nella consapevolezza dello storico à la Bloch – in un insieme più complesso, in un approccio per così dire ecologico.

E proprio come soprattutto Telmo Pievani scriveva in “Come saremo” (Codice 2016), l’evoluzione storica e tecnologica avviene in una successione di nicchie eco-culturali che gli umani costruiscono, alle quali si adattano, prima di modificarle. Proprio come scriveva Bloch, colorando il fenomeno a modo suo: «L’uomo trascorre il suo tempo a costruire dei meccanismi, di cui diviene poi il prigionero più o meno volontario» (p. 51). La sottolineatura critica suggerisce un aspetto di quell’evoluzione: c’è uno spazio, in quel tempo evolutivo, che richiede conoscenza, consapevolezza, libertà. Nessuna di queste è scontata.

A maggior ragione nel quadro del cambiamento culturale che si sta consumando nella società contemporanea: il passaggio dall’epoca della scrittura di testi all’epoca della scrittura di programmi. Come ricorda Cosimo Accoto: il software è il primo testo che fa quello che dice. E come dice Lawrence Lessig: il codice è legge. Il potere era scrivere, e in particolare scrivere le leggi: oggi è scrivere algoritmi e contribuire alla progettazione dei sistemi complessi che governano il mondo attuale. Il documento scritto, dice Bloch, serviva a trasmettere la conoscenza tra le generazioni: e funzionava solo se lo si comprendeva con rispetto per il contesto storico che l’aveva prodotto. Anzi: il compito degli storici era proprio quello di restituire l’esperienza degli uomini del passato al loro ambiente, senza travisarla artificiosamente attualizzandola (p. 52). Anche se consapevolmente, gli storici andranno a cercare le tracce degli umani del passato con un armamentario di domande che si sono costruiti attraverso la sensibilità per il loro presente. E inevitabilmente la comparazione tra epoche e ambienti diversi, sulla base di domande attuali, porterà a un confronto tra esperienze e punti di vista, tale da arricchire la conoscenza e per questa via la diversità dell’intelligenza collettiva. Ma la disciplina del senso critico, l’approccio scientifico all’analisi delle fonti, la lealtà nei confronti degli altri umani – presenti, passati, futuri – sarà il filo conduttore metodologico dell’opera storica: in questo costituendo il messaggio fondamentale. La bellezza della scoperta, il conforto del rispetto, il discernimento che si sviluppa cercando di comprendere ciò che è importante nell’insieme vasto di informazioni disponibili: elementi culturali che arricchiscono la vita e liberano l’azione. Farne a meno significa abolire la libertà e alimentare il nichilismo che conduce al rancore e all’accettazione della manipolazione della realtà.

L’intelligenza collettiva è un concetto che serve a pensare come gli umani scelgono insieme: migliorano le loro scelte se conoscono il modo con il quale le formano e se le loro collettività sono composte da individualità diverse e percorsi culturali ricchi di esperienze differenti, purché abbiano metodi di convivenza civile e sappiano ascoltarsi, rispettarsi, imparare costantemente. La storia è parte di tutto questo. E soprattutto se si guarda al futuro.

Ma questo non è un esercizio confinato nel passato. Il percorso storico conduce alla discussione sulle “cause” dei fatti storici: il che si traduce ovviamente nella ricerca critica delle conseguenze. E poiché del futuro sappiamo soltanto che è la conseguenza di ciò che avviene oggi, la storia è anche una disciplina che alimenta la conoscenza del futuro. La sensibilità storica conduce di solito a privilegiare la ricerca delle condizioni favorevoli al verificarsi di certi fatti, piuttosto che alla definizione deterministica di relazioni di causa ed effetto: la storia è un allenamento a pensare la complessità, i sistemi incentivanti, le formule narrative che aggregano le comunità verso direzioni interpretative comuni delle conseguenze di ciò che fanno; la storia è un allenamento a pensare in termini probabilistici. La storia è dunque una disciplina fortemente contemporanea, orientata al futuro tanto quanto è umilmente dedicata a indagare il passato, suggerendo agli storici la sfida di conoscere sé stessi e il loro presente attraverso la conoscenza delle domande che si pongono. La storia va difesa.

La sovranità è identità. L’identità è storia. La storia è libertà. La libertà è apertura. L’apertura è rispetto. Il rispetto è intelligenza. Imho.

Marc Bloch, Apologia della storia. O mestiere di storico, Einaudi 1975 (v.o. 1949)

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Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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