Un bel dibattito è partito ieri dopo un articolo concreto di Massimo Sideri, seguito da un contributo pubblicato su questo blog (È possibile rispondere all’arretratezza italiana nell’innovazione?).
In sintesi. L’ecosistema dell’innovazione italiano è bello e impossibile, popolato da “innovatori naturali” frenati da un contesto che non li valorizza, non li finanzia e non li lascia neppure troppo in pace (Corriere). Si può e si deve fare qualcosa. Una proposta era quella di puntare a finanziare l’innovazione con una parte degli stessi soldi che sono destinati a modernizzare le infrastrutture e le città italiane (LDB).
Uno strumento è quello del forward looking procurement, si diceva.
Mario Calderini ha contribuito a far conoscere e applicare il concetto. In pratica si tratta di reinventare le gare d’appalto, orientando il sistema incentivante non verso la minimizzazione del costo ma verso la massimizzazione dell’innovazione. Tanto per fare un esempio, l’ente appaltante non fa una gara del tipo “voglio questo numero di computer, queste licenze, questo sviluppo” e chiedo il miglior prezzo; ma invece chiama gli innovatori a rispondere a una domanda del tipo “voglio arrivare a questo obiettivo, non so come arrivarci, metto in campo questo ammontare di soldi per l’idea migliore, con questa roadmap per la realizzazione, sapendo che ci vorrà un certo tempo…”. Insomma, mette a disposizione dei soldi per innovare. Le regole del forward looking procurement sono modellabili in base agli obiettivi. Sono orientate al risultato e non alla procedura. E’ un sistema già adottato qualche volta in Europa, spesso in America, un paio di volte in Italia.
Si può fare?
Gigi Cogo dice che con una pubblica amministrazione come è quella italiana è un progetto che richiama alla mente l'”araba fenice“. Come dargli torto, dopo l’esperienza dei decenni che abbiamo passato? Forse, la strada migliore è quella di puntare ai capitali privati. Il forward looking procurement lo possono anche fare le mega-aziende infrastrutturali private, dalle banche alle reti. Questo stabilirebbe comunque dei traguardi per gli innovatori e dei possibili fatturati.
Alfonso Fuggetta dà i voti al pezzo citato in apertura e lo boccia. Piuttosto preferisce altre soluzioni: 1. “Progetti di ampio respiro per creare filiere tra imprese grandi e medio piccole. Era l’idea di Industria 2015, naufragato non perché in sé fosse una cattiva idea, ma per carenza di fondi e per processi di gestione improponibili. Questi progetti premiano innovazioni tecnologiche più profonde o di sistema”; 2. “Strumenti automatici che permettano alle imprese (tutte!) di avviare, sostenere e velocizzare processi di innovazione diffusa. È il credito di imposta che va “all’utente” dell’innovazione, non al fornitore che ne beneficia in modo indiretto in quanto percettore di un contratto con l’azienda “utente”.”
Le proposte precise e generate da esperienza vera sono di solito non alternative ma complementari. Di certo, un ecosistema ad alto potenziale e basso risultato come quello italiano ha bisogno di misure ampie e orientate ad affrontare le questioni di sistema. Con una mentalità orientata al lungo termine e con la determinazione che gli italiani si sanno dare quando le scadenze fondamentali si avvicinano. E non è un paradosso. Progettare con concretezza la costruzione di un futuro sensato e lungimirante è urgente.
ps. Sarebbe fantastico raccogliere un insieme sistematico di proposte. Tra l’altro quelli del Sole 24 Ore lo vogliono fare per organizzare una specie di documento da promuovere sul giornale in modo continuativo…
Leggendo qua e là ho trovato la nuova normativa Ue sugli appalti pubblici. Nella descrizione ci sono molti spunti che provano a supportare l’innovazione. In particolare le tre W della nuova economia sostenibile che richiama Flaviano Zandonai.
1. La produzione di ricchezza (wealth): un fattore classico che approssima il reale all’economico, ma che però è sempre più scomposto e arricchito guardando a modalità più condivise di produzione e di consumo.
2. La creazione di lavoro (work): altra componente tradizionale dell’economia reale, ma che richiede – anch’essa – di essere ridefinita, guardando a un complesso più articolato di motivazioni ed interessi (creatività, condivisione, ecc.) che mettono in crisi i modelli organizzativi tradizionali ed enfatizzando quelli in senso lato cooperativi.
3. L’impatto sul benessere (well-being): è forse il fattore che più è cresciuto di rilevanza negli ultimi anni, dimostrando che l’economia è reale anche perché genera valore ad ampio raggio e a favore di diversi soggetti.
Qui la legge
http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32014L0024&from=IT
e qui Zandonai
http://blog.vita.it/fenomeni/2015/12/30/2016-economia-reale-innovazione-sociale/