La grande influenza di Mariana Mazzuccato è ben meritata. E giustamente l’Economist le ha riservato uno spazio adeguato per un intervento sul tema delle startup e della pubblicistica in materia.
Ovviamente, l’interesse suscitato da quell’articolo è anche in un titolo che gioca sulla tecnica dell’opposizione a un mantra molto ripetuto: “Startup myths and obsessions”. Il titolo di Mazzucato emerge perché definisce un avversario e lo contrasta: l’avversario è definito come l’ossessione di ritenere che le startup garantiscano crescita, occupazione, produttività, ricerca, innovazione. Questo avversario è contrastato da Mazzucato con un argomento sacrosanto: non sono le startup che contano ma l’ecosistema dell’innovazione. In una partita così definita, Mazzuccato vince facilmente. Ogni persona ragionevole non può pensare che le startup garantiscano soluzioni (ai temi della crescita, occupazione, produttività, ricerca, innovazione) e non può che osservare senza difficoltà che le startup possono generare quelle soluzioni solo nel quadro di un ecosistema dell’innovazione. C’è peraltro un rischio nell’articolo di Mazzucato, specialmente se letto in un paese come l’Italia: perché non ci sono solo persone con l’ossessione dalle startup, ci sono molte più persone con la paranoia della conservazione. E un titolo furbetto come quello che è stato fatto all’articolo di Mazzucato può essere per questi conservatori un grande motivo di soddisfazione.
Le startup da sole non solo non risolvono niente, ma probabilmente non esistono neppure. E lo stesso più o meno si può dire per il venture capital. L’ecosistema dell’innovazione è alimentato da molte componenti: connettività a larga banda, investimenti pubblici in ricerca, imprese consolidate che innovano, un ottimo sistema dell’istruzione, un sistema finanziario orientato a sostenere l’economia reale, un sistema fiscale che favorisce gli investimenti orientati all’innovazione, una normativa sull’immigrazione pensata per attrarre o almeno non respingere i talenti, una regolazione antitrust intelligente e attiva, e molto altro ancora.
Mazzucato ha perfettamente ragione a sostenere che un ecosistema dell’innovazione è tanto più sano e generativo quanto più offre spazio non solo alle azioni di breve termine ma anche alle dinamiche orientate al lungo termine. La ricerca non può essere guidata solo dall’esigenza di risultati immediati, l’investimento non può essere solo quello che venture capital che si pone un orizzonte di 3/5 anni, l’innovazione non può essere fatta solo da startup che cercano di trovare una soluzione in 4 anni. Ma con la stessa retorica si può dire che un ecosistema dell’innovazione non può essere fatto solo di investimenti pubblici a lungo termine, ricerca con orizzonte ventennale, grandi aziende che gestiscono i loro mercati consolidati. L’ecosistema dell’innovazione è complesso e non è sano senza una ricca “diversità” di componenti. Le startup sono solo una di queste componenti. E se non ci sono c’è un problema.
Va peraltro aggiunto che un modello di ecosistema dell’innovazione non ha senso se non tiene in conto il contesto locale storicamente definito. Ci sono territori dove per decenni si è investito in ricerca a lungo termine e non generano startup o aziende innovative. Ci sono territori con grandi imprese che non riescono a spendere in ricerca e a innovare. Ci sono distretti di piccole imprese dinamici che innovano più nel processo che nella tecnologia o nel prodotto. In quei contesti, l’ecosistema diventa più innovativo attraverso percorsi diversi. Nei vari contesti poi le startup che probabilmente avranno successo sono diverse. In un paese come l’Italia, che ha recentemente scoperto la possibilità di competere sul mercato internazionale che si è creato su internet e sugli store per le apps, si è liberata una capacità inespressa di scrivere nuovo software per nuovi modelli di business: e la fioritura di startup che propongono un marketplace per qualcosa (nei vari incubatori se ne trovano molti per esempio dedicati ad architetti, istituti di bellezza, babysitting, manager che cercano lavoro, e così via), sembra rispecchiare il fatto che in Italia in generale il sistema di mercato funziona peggio che altrove e ha un grande margine di miglioramento e innovazione. D’altra parte, in un paese come l’Italia è probabile che le startup destinate ad avere maggiore successo localmente (senza cioè finire per vendersi all’estero) siano connesse alle imprese consolidate ma dinamiche che ci sono in questo territorio: si può pensare agli esportatori in alimentare, abbigliamento, arredamento, automazione, tanto per fare degli esempi. Sarebbe diverso in paesi con altre specializzazioni. Se le imprese consolidate non si aprono all’innovazione che viene anche dalle startup possono finire per perdere opportunità e competitività: in Italia è successo probabilmente nel turismo, grande specializzazione del paese ma i cui operatori erano abituati a vendere senza fatica e non si sono aperti all’innovazione, dunque non hanno neppure favorito o ispirato la nascita di startup innovative nel settore col risultato che questo è avvenuto in altri paesi, col risultato che il turismo italiano perde competitività e margini. Sul turismo ci sono stati investimenti pubblici, ma non hanno generato certo l’effetto innovativo segnalato per altri paesi da Mazzucato.
Significa insomma che l’ecosistema dell’innovazione ha bisogno anche di innovatori. E gli innovatori emergono attraverso molti canali: comprese le startup. Che possono avere successo o non averlo. Ma di certo sfidano a innovare, educano a innovare, aprono opportunità per innovare.
Contrastare l’ossessione per le startup è sano come contrastare qualunque ossessione. Mazzucato ha avuto un enorme funzione nel rivalutare la funzione del settore pubblico che un’ossessiva ideologia iperliberista aveva praticamente demonizzato. Ma per alimentare l’ecosistema dell’innovazione oltre a curare l’ossessione delle startup sarà bene anche attaccare con forza la ben più pericolosa paranoia della conservazione.
Luca,
dici “Le startup da sole non solo non risolvono niente, ma probabilmente non esistono neppure. E lo stesso più o meno si può dire per il venture capital. L’ecosistema dell’innovazione è alimentato da molte componenti: connettività a larga banda, investimenti pubblici in ricerca, imprese consolidate che innovano, un ottimo sistema dell’istruzione, un sistema finanziario orientato a sostenere l’economia reale, un sistema fiscale che favorisce gli investimenti orientati all’innovazione, una normativa sull’immigrazione pensata per attrarre o almeno non respingere i talenti, una regolazione antitrust intelligente e attiva, e molto altro ancora.”
C’è da aggiungere a tale lista, secondo me, anche il bisogno di una visione di uno o più distretti industriali, nuovi o da trasformare, che sia pubblica condivisa dalla PA (locale e/o nazionale) assieme a grandi imprese (locali e/o nazionali). Eccone una nostra dell’Open Media Park per un distretto nel Lazio che include un nuovo parco tecnologico mediale di caratura internazionale:
http://www.openmediapark.com/visione-strategica-2020-dellopen-media-park-e-cluster-per-il-settore-mediale-italiano-e-del-lazio/
Rufo
Proprio ieri, Luca, ho scritto che ci vorrebbero più lavatrici e meno startup 🙂 http://usernet.blogautore.espresso.repubblica.it/2014/03/02/piu-lavatrici-meno-startup/
Articolo generico e commento di LDB ancora più generico: per fare considerazioni significative servono numeri (in euro, in posti di lavoro, in aziende, in anni, . . . ) non argomentazioni di buon senso più o meno condivisibili . . quelle lasciamole ai convegni fuffosi e ai giornalisti . . . . insieme ai clichè faciloni sull’innovazione, agli stereotipi sulle start up ed al marketing mascherato da informazione . . . .
Ma non dite (Mariana e Luca) la stessa cosa? 🙂
What we need if we are to avoid the much-feared “secular stagnation” is not many small startups—or an obsession with financing “SMEs”–but an innovation ecosystem in which these new firms are made relevant through a dynamic interaction of public and private investments. This requires a public sector able and willing to spend large sums on education, research and those emerging areas that the private sector keeps out of (because of high capital intensity and high technological/market risk); large firms which reinvest their profits not in share-buybacks but in human capital and R&D; a financial system that lends to the real economy and not mainly to itself; tax policy that rewards long run investments over short run capital gains; immigration policy that attracts the best and the brightest from around the world; and rigorous competition policy that challenges lazy incumbents rather than letting them get away with high prices and parasitic subsidies.
http://www.economist.com/blogs/schumpeter/2014/02/invitation-mariana-mazzucato
Credo che l’articolo della Mazzucato abbia il merito di sottolineare il bisogno di allargare la riflessione sul mondo delle startup evitando il rischio di un isolamento tra chi si occupa a tempo pieno di startup ed il resto del sistema produttivo italiano.
L’enfasi sul creare un ecosistema di innovazione apre spazi, secondo me, anche al mondo dei tanti manager che oggi escono dal mercato del lavoro e che potrebbero dare una mano (investendo direttamente anche qualche soldo) con le competenze ed il loro capitale sociale.
Aspettando che il Pubblico faccia la sua parte, incominciamo a costruire un ponte tra startup e manager e grandi aziende.
[…] mediatico scoraggiante e tale da generare solo scetticismo è altrettanto negativo e in certi casi anche di […]