Le imprese che operano nella rete, i gestori delle grandi piattaforme di social networking, le società che offrono servizi e contenuti sui media digitali; le banche e le compagnie telefoniche, le autostrade e i produttori di navigatori gps, le compagnie aree e quelle delle carte di credito; un sacco di imprese raccolgono enormi quantità di dati sulle persone. Le città intelligenti, le loro pubbliche amministrazioni, i servizi machine-to-machine con sensori, rfid, e tutto il resto, collezionano a loro volta enormi quantità di dati. Sicché sanno cose che le istituzioni della statistica ufficiale non sanno o non controllano. Il pubblico ne è escluso o informato parzialmente o comunque ne viene a conoscenza solo in funzione dell’interesse di chi possiede quei dati. Mentre le statistiche ufficiali sono una componente essenziale per la cittadinanza che vuole sapere come stanno le cose.
I possessori di Big Data hanno dei vantaggi straordinari, nella tempestività della raccolta dei dati e, compatibilmente con le leggi vigenti, nel loro utilizzo. Le statistiche ufficiali hanno un vantaggio per quanto riguarda la tradizione scientifica del utilizzo dei dati.
Ci sono differenze di metodo nell’uso dei dati. Nell’elaborazione dei dati. Nell’estrapolazione dei dati. E nella comunicazione dei dati. Il problema è affrontato da tempo all’Unece. E naturalmente è coinvolta anche l’Istat guidata da Enrico Giovannini.
I principi fondamentali delle statistiche ufficiali sono definiti dall’Unstats:
Official statistics provide an indispensable element in the information system of a democratic society, serving the Government, the economy and the public with data about the economic, demographic, social and environmental situation.
I Big Data sono definiti per esempio da Gartner:
Big data are data sources that can be – generally – described as: “high volume, velocity and variety of data that demand cost-effective, innovative forms of processing for enhanced insight and decision making.”
Le sfide sono relative ai diritti, come la privacy e la libertà di accesso all’informazione, alla logica dello sfruttamento finanziario delle informazioni, alle politiche dell’accesso, alle tecnologie e alla concentrazione del potere. Ma sono anche relative alla qualità della conoscenza che emerge dai dati.
Le sinergie possibili tra i possessori di Big Data e gli uffici statistici pubblici sono forti dal punto di vista scientifico. Ma riguardano soprattutto la conoscenza come bene comune. E dunque come valore di cittadinanza. Inoltre hanno un chiaro valore come elemento dell’efficienza del mercato: le asimmetrie informative sono parte del potere delle grandi compagnie nei confronti delle altre aziende o dei consumatori, e la riduzione delle asimmetrie – pur non consentendo l’arrivo alla concorrenza perfetta, come ha dimostrato Joseph Stiglitz, che resta un mito ad alto tasso ideologico, favoriscono la dinamica dell’innovazione.
D’altra parte, ma è un’opinione del personale, si potrebbe sostenere che i cittadini hanno diritto a una parte del valore generato dai loro comportamenti registrati negli archivi di Big Data. E che quel valore – senza che questo comporti una transazione monetaria – può essere ritornato alla cittadinanza in termini di accesso a informazioni sintetiche e scientificamente corrette, attraverso la mediazione degli uffici pubblici di statistica che potrebbero elaborarle allo scopo di migliorare la convivenza civile e l’efficienza del mercato.
[…] sullo stretto rapporto tra statistiche e dati, interviene anche Luca De Biase, parlando di “bene comune”: ciò che genera conoscenza, e che contribuisce a coltivarla ed arricchirla, si deve cercare di […]