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Per un pugno di miliardi di dollari: Facebook grafo sociale, Google grafo della conoscenza

Tutti si rendono conto che la quotazione in borsa di Facebook è un punto di svolta. Può essere il culmine di una bolla speculativa? Oppure la prova che dietro il nuovo boom delle aziende internettiane c’è vera carne al fuoco? Purtroppo sono vere entrambe le cose: la finanza viaggia per i fatti suoi e sta speculando senza pietà, mentre la carne al fuoco c’è e viaggia con i tempi della realtà:

1. Facebook arriva con i suoi 100 miliardi di valutazione sulle ali di altre valutazioni molto elevate: Instagram vale un miliardo, Evernote vale un miliardo, ora anche Pinterest vale un miliardo. La storia che la finanza autoreferenziale sta raccontando è chiara: se quelle piccole aziende valgono tanto, Facebook vale molto di più.

2. La realtà è che Facebook fattura poco e guadagna poco per valere 100 miliardi. La pubblicità su Google funziona meglio perché spesso si riceve in coerenza con il flusso delle attività degli utenti. Su Facebook è talvolta un’interruzione della conversazione. Con la sola pubblicità Facebook potrebbe faticare. Se questo è vero (sono ipotesi non certezze), allora o Facebook riuscirà a trovare un nuovo modello di business o sarà un flop dal punto di vista finanziario. (Vedi Dixon, AllthingsD, Epicenter)

3. Facebook potrebbe trovare un nuovo modello di business trasformandosi in pieno in una piattaforma sulla quale girano apps che vendono prodotti o servizi e danno una quota a Facebook. Su questo piano, Facebook si trasformerebbe in una piattaforma che ospita applicazioni per l’ecommerce, per i viaggi, per i giochi e quant’altro, pensate per utilizzare proprio le relazioni tra le persone “amiche” su Facebook. In questo caso, i soldi che Facebook potrebbe fare sono una quantità sterminata. Ma è una visione della quale si hanno soltanto alcuni primi segnali. E non è detto che funzioni, finché Facebook non ha un servizio mobile vero e degno di questo nome.

Google, come del resto Amazon e Apple, tenta di trasformarsi sempre più esplicitamente in una piattaforma. E Facebook, si può star certi, farà altrettanto. La forza di Facebook come piattaforma poggia su una tecnologia relativamente banale e sull’enorme e non banale valore generato dalle attività degli utenti: la piattaforma di Facebook è il grafo sociale. Google, come vediamo dalle notizie di oggi, è una piattaforma che poggia sul grafo della conoscenza. Sarà più solido il primo o il secondo per fondare un sistema capace di durare nel tempo? E man mano che queste piattaforme, come spesso succede, tenteranno di mantenere le persone per un tempo sempre più lungo al loro interno, non nasceranno delle alternative? Facebook e Google fanno pubbliche relazioni basate sulla loro missione eticamente corretta, anche perché devono convincere le persone a fidarsi di loro: ma le critiche e le paure che questi giganti suscitano sono importanti. Potremmo cominciare a immaginare un mondo con meno Google e Facebook?

La bolla, se è bolla, scoppierà, purtroppo. Il valore d’uso e l’innovazione continueranno invece a costruire un nuovo paradigma di vita sociale, culturale ed economica. Meglio saperlo e agire di conseguenza.

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Rispondi a SMALL, MEDIUM, BIG DATA: per un’archiettura consapevole, decentrata, interoperabile | Luca De Biase Cancel reply

  • Egregio Direttore,
    in questi giorni, si fa un gran parlare di operazioni di acquisizione di start-up da parte di grandi aziende, soprattutto in ambito web. Forse il caso più eclatante è quello di Instragram, applicazione di foto sharing, acquisita da Facebook per 1 miliardo di dollari. Ma ce sono diverse altre, sebbene di scala inferiore. Così LinkedIn che acquista SlideShare, Twitter che investe in RestEngine. Anche noi italiani non siamo stati da meno ed abbiamo i nostri champion. Indubbiamente grandissimi successi e bellissime storie!
    Stiamo finalmente uscendo una crisi?
    Ragionando dritto per dritto, occorrerebbe creare le condizioni affinchè queste iniziative si moltiplichino per uscire finalmente dalla crisi. Qualche giorno fa, su un sito di un noto fondo di venture capital inglese ho scovato nel portafoglio di investimenti, una start-up che consente di condividere la foto del proprio look per ottenere feedback dalla comunità di amici. Magari un caso singolare. Ne deriva tuttavia una domanda: per simili progetti imprenditoriali, quale è il prodotto? E soprattutto, queste sono le basi dell’economia che verrà? Qualche perplessità nasce, soprattutto se lavori nell’ambito del trasferimento tecnologico ed ogni giorno incontri ricercatori che mediamente ti parlano di altre cose.
    Proviamo a guardare ai dati del trasferimento tecnologico in Italia, inteso come impiego di risultati e competenze di Università ed Enti Pubblici di Ricerca in un contesto industriale. Secondo l’ultima survey pubblicata dal Netval – network per la valorizzazione della ricerca universitaria – alla fine del 2010, il numero di brevetti detenuti in portafoglio dalle Università italiane ammonta complessivamente a 2.685 unità (+125,8% rispetto al 2005). A fronte di questo enorme patrimonio, nel 2010 sono stati stipulati complessivamente soltanto 63 contratti di licenza e/o opzione (di cui circa la metà, conclusi da 5 Università). Evidenze non molto dissimili, le troviamo se guardiamo alle imprese spin-off. Ben 990 sono le aziende definite come spin-off in Italia. Se tuttavia guardiamo nei portafogli dei venture capital italiani, ne troviamo pochissime, nel senso che si contano sulle dita delle mani.
    Giungiamo al dunque. Quanto crediamo che l’economia industriale di domani possa fondarsi sull’effetto social network, in cui magari la componente prodotto è limitata ma vi è la possibilità di monetizzare velocemente? Se, al contrario, crediamo che vi debba essere un contributo effettivo dei risultati e delle competenze che provengono dalla ricerca universitaria per la competitività nel lungo periodo dell’industria, allora occorre ragionare sulle forme di trasferimento tecnologico. Ragionamenti tanto più importanti, se consideriamo che il Governo Monti sta varando un Piano Sud che prevede giustamente di allocare una quota significativa di finanziamenti sull’innovazione. Ma su cosa?

  • Ciao Luca, Facebook vale molto, sicuramente troppo se si considera l’ottica di breve periodo. Le sole pubblicità sulla sidebar non produrranno moltissima ricchezza, è una notizia di pochissimi giorni fa che GM abbia tagliato 10 milioni di dollari di annunci dal social network perché considerati poco produttivi.

    Ma limitarsi a questo non rende giustizia alla creatura di Zuckerberg. Facebook è la più grossa aggregazione sociale che esista sul web. All’interno abbiamo pagine aziendali, personali, di giornalisti, blogger, politici e quant’altro.

    Tutti questi contenuti devono e dovranno essere messi in risalto per essere sfruttati a dovere. Per cui l’implementazione di un motore di ricerca interno, intelligente e funzionale, sarà la svolta. E stai certo che per il 2012, massimo prima metà 2013, lo vedremo. A costo che sia Bing ad essere integrato.

    Google genera 26 miliardi l’anno dalla SERP per i suoi annunci AdWords. Ci sono realtà come Softonic che vendono gli annunci delle loro ricerche interne per il software. Perché il più grosso “grafo social” non dovrebbe fare altrettanto?

    E questo ovvierebbe in parte alla crescente fruizione mobile che è assai meno produttiva. Immagina l’utente che cerca le serate del luogo dallo smartphone e trova i programmi delle discoteche e locali notturni? Senza dover essere iscritto alle pagine ovviamente.

    Le possibilità di business ci sono e a me sembra che non sia Facebook (o i suoi investitori) a dover temere una bolla ma Google a dover proteggere le sue revenues. Per un simile servizio, l’importante è tenere gli utenti attaccati al web, per molto tempo, e FB ci riesce. Poi la monetizzazione sta alle capacità del management, ma le possibilità sono ampie.

  • […] sguardo delle persone. 500 milioni di cose e 3,5 miliardi di relazioni, precisano da Google, numeri che gli osservatori più accorti accostano a quelli degli utenti di Facebook, per suggerire che la competizione tra i due giganti […]

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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