Uhmm. Scrivendo un post ieri al volo con il telefonino a commento della lettera del direttore del Corriere ho evidentemente suscitato più aspettativa che soddisfazione. Meglio ritornarci sopra.
Non perché sia importante quello che devo dire. Ma per un senso di solidarietà. Per tutti coloro che stanno soffrendo, da diversi punti di vista, per la grande transizione che vediamo nel sistema dell’informazione. E’ questo, essenzialmente, il motivo di scrivere: la sofferenza dei collaboratori sfruttati in modo indecente, la sofferenza dei costruttori di siti d’informazione incerti sulle loro prospettive, la sofferenza dei giornalisti disorientati del Corriere, i tantissimi che vogliono fare bene il loro mestiere e non sanno bene come… Sofferenza che si supera solo costruendo qualcosa che possa servire a qualcuno.
Meno importante, rispondere alle richieste di chiarimento. Ma devo perché mi pare di essermi forse spiegato male, o troppo in fretta. Sicché mi trovo preso tra due fuochi. Valerio Mariani vede nel mio post un “sottile aventinismo”: secondo lui è ora di dire che è finita con le redazioni di una volta e chiudere il discorso. E Luca Nicotra mi dà del “democristiano” (vabbè, vediamola come una battuta…): anche se legge nelle mie parole la consapevolezza delle sofferenze dei precari del giornalismo del web non comprende perché io sia così poco attento alle posizioni della redazione. Insomma, mi trovo in mezzo, come un democristiano aventinista: tra chi dice che dovevo essere più deciso contro i privilegi della casta giornalistica e chi dice che dovevo essere meno facile all’approvazione per quanto detto da Ferruccio de Bortoli.
Molti altri commenti e segnalazioni per una vicenda che evidentemente fa pensare. (Li ha raccolti Luca Nicotra: Giacomo Dotta, Stefano Quintarelli, Massimo Mantellini, Francesco Costa, Michele Ficara, il Post, European Journalism Observatory).
Intanto, il Cdr del Corriere ha risposto.
Ok. Ecco dunque quello che ne penso, un po’ più distesamente (ma senza tornare su concetti già espressi spesso su questo blog):
1. Non è obbligatorio avere opinioni su tutto. Mi rifiuto di averne sulla prassi sindacale del Corriere. Per un semplice motivo: è un labirinto dal quale non si sa come uscire. E di sicuro non lo so io. Storicamente si è accumulata una quantità di regole che originariamente potevano avere una certa rilevanza in termini di garanzie professionali, ma ora non si capiscono più. D’altra parte, non si capisce quale esattamente sarà la conseguenza sulla logica della trattativa dell’ultimatum di de Bortoli: è un modo per aprire o per chiudere? Io non lo so. Insomma: niente di aventinesco o di democristiano. Semplicemente, c’è una tecnica della contrattazione sindacale che mi sfugge e che non ho voglia di imparare. Ma questo non significa che la vicenda non meriti un commento, di altro genere.
2. Tutto dipende da come si vede la situazione. Se la visione è che le redazioni dei giornali sono come le fabbriche siderurgiche degli anni Settanta, inutili, costose, fuori tempo, privilegiate e obsolete, allora si ritiene che siano destinate semplicemente a chiudere. Se i proprietari dei giornali o i sindacati le vedono così, si preparano a uno scontro violento, basato sulla contrapposizione tra chi vuole smantellare e chi vuole difendere. Infilarsi in un percorso del genere è perdente per tutti.
3. La rete e l’innovazione internettiana hanno cambiato le prospettive dell’informazione, mandando in crisi vecchi modi di fare ma generando anche nuove opportunità. La ricerca di un nuovo equilibrio nell’ecosistema dell’informazione si persegue sperimentando soluzioni e accettando che alcune falliscano, per far emergere le novità di migliore durata. Non siamo più alla catena di montaggio di prodotti editoriali. Dobbiamo trovare il modo di valorizzare le squadre creative di idee e informazioni. Ma è certo che nell’insieme, l’ecosistema sarà più ricco se sarà dotato di infodiversità: dunque, ricco di persone che offrono la loro conoscenza agli altri insieme a persone che lavorano professionalmente per creare nuova conoscenza. Come si organizzeranno queste diverse modalità di lavoro? Non lo sappiamo. Sappiamo che una parte di lavoro sarà svolto da piccole redazioni leggere e agguerrite, una parte da grandi redazioni capaci di accumulare esperienza nel tempo, una parte da inchieste finanziate da strutture non profit, una parte dai cittadini (forse una gran parte) che per la loro esperienza e per la loro buona volontà porteranno attivamente e volontariamente le loro informazioni all’insieme.
Si può essere molto arrabbiati per come sono le cose oggi, nell’informazione italiana. Ma il giudizio deve essere anche un po’ razionale. I massimi responsabili sono di solito i vertici editoriali, con le loro tradizionali commistioni di interessi. I giornalisti professionisti assunti nelle grandi redazioni hanno le loro responsabilità, ma il fatto che abbiano dei privilegi non è una colpa: è il frutto di una storia. Casomai, come si diceva sopra, i privilegi li potrebbero rendere miopi: la semplice difesa di quei privilegi potrebbe portarli a vedere in modo assurdamente sbagliato questa fase storica scegliendo la difesa a oltranza. E in questo andrebbero criticati. Perché è ora di creare una nuova visione della produzione di informazione, dell’economia che la sostiene e della qualità delle condizioni di lavoro di tutti: assunti e non, collaboratori e dipendenti. Una visione in cui gli interessi di tutti gli autori, collaboratori o dipendenti, sono necessariamente considerati insieme. I dipendenti se ne sono dimenticati per troppo tempo. Ma la storia si sta incaricando di ricordare loro questa semplice realtà. E l’unico punto sul quale si reinventeranno sarà lo stesso per il quale occorre che si sviluppi la qualità del lavoro dei collaboratori: il servizio per il pubblico. Come osserva Cassandra non basta l’innovazione spinta e caotica: prima o poi occorre maggiore qualità e responsabilità. Ma siamo nel mezzo della transizione. E’ ovvio che si soffra. Anche se la sofferenza si supera solo costruendo qualcosa in una prospettiva orientata a migliorare la situazione.
Mi scuso ancora per l’impreparazione sulle materie contrattuali di questa vicenda. Ma sulla progettazione di un nuovo modo per fare l’informazione, più equilibrato e di maggiore qualità, con opportunità per i giovani e gli indipendenti (di mente e di pratica), ho scritto molto in questo blog di appunti e riflessioni. Se ne trova una traccia qui. Ma con pazienza ci si tornerà ancora.
in effetti è così. come possano pretendere che certi accordi (si arriva fino al 1973, quando c’erano ancora le macchine da scrivere e la stampa litografica) siano validi oggi non lo so proprio. e mi lascia basito questo blocco mentale a diventare multi e cross mediali. perché un giornalista può scrivere il suo pezzo per il Corriere di carta e non per quello su ipad? ha senso avere redazioni separate e differenti? è un’assoluta follia. così come è folle tirare in ballo la costituzione, la cina, pomigliano e chissà che altro parlando di art.1 del Corriere che rifiutano di aggiornarsi professionalmente. Orribile. Ecco la casta.
Luca, un commento veloce perchè evidentemente anch’io mi sono spiegato male. Il mio era un post ironico, con una aggettivazione ugualmente ironica. Sono d’accordo con le argomentazioni di fondo di De Bortoli ma venerdi’ ho tentato inutilmente di trovare qualche riflessione o retroscena per comprendere, senza pregiudizi, il contesto in cui la lettera si inseriva. Non ho potuto non evidenziare il posizionamento bulgaro dei blogger nostrani (non sono il solo, il Riformista oggi titola “Il Popolo del web tifa De Bortoli”) tra cui eri l’unico ad evidenziare una delle molte altre “dimensioni” della vicenda.
Non mi aspettavo nulla da alcuno in particolare, ci mancherebbe, ma nel complesso speravo di trovare qualcuno che completasse il quadro che avevo in mente. Poco male. Mi sono sfogliato la rassegna stampa il giorno dopo.
Ho ben presente che qui si parla del mondo dell’informazione, ma traendo spunto dalle pulci che le redazioni farebbero al ‘resto del mondo dell’impresa e del lavoro”, mi permetto di aggiungere uno spunto terra-terra, ovvero l’invito ad allargare lo sguardo, a non esaurire la riflessione sulla problematicità del momento storico, all’interno del pur travagliato mondo dell’informazione. Dove stanno, in fondo, i suoi confini? Perché le professionalità che comunque contribuiscono a mandare avanti i meccanismi dell’innovazione in questo come in altri settori, sono tante e di variegata fattezza e provenienza. Fuori nel neanche troppo Far West/East/South/North c’è una miriade di identità misconosciute. Ho trovato interessante, per esempio, l’amara ironia di questo post di Giacomo Mason (Intranet Management) intitolato: Sei un lavoratore autonomo e devi solo morire (http://www.intranetmanagement.it/2010/10/sei-un-lavoratore-autonomo-e-devi-solo-morire/). Chiama in causa le istituzioni e una delle parti sociali di quella che un tempo fu la contrattazione, il mondo sindacale. E mentre nella lettera di De Bortoli si legge l’invito a considerare una spinta destrutturante e fluidificante, non mancano, in una fascia non indifferente di “professional”, le preoccupazioni per la sordità con cui intanto le istituzioni ‘rispondono’ ai problemi che li investono nell’attuale momento storico. Ne è prova il fatto che il massimo sforzo prodotto, pare essere quello di ‘riconoscerli’ P.IVE a rischio evasione fiscale, ancorché negate e confuse nella giravolta di sigle nuove (co. & co e ancora co) e spinte dentro il calderone della gestione separata a sopportare una crescente contribuzione alle casse previdenziali senza la prospettiva di ricevere qualcosa di significativo in cambio. Così, giusto per aggiungere anche questa di colorazioni. Umanamente comprendo quando si dice che non è obbligatorio avere un’opinione su tutto e magari lo spunto che propongo qui non è abbastanza asettico, ma, “oggettivamente”, non vuole essere che l’apertura di uno spot di luce sulla sempre più difficile sostenibilità degli impegni contributivi, in aggiunta a quelli fiscali, per tanti autonomi “dis-ordinati’, ‘s-cassati’ ‘s-tutelati’ e tendenzialmente poco ricchi e poco inclini all’offshore, per esempio. Insomma, nella realtà c’è anche questo. Non amo il lamento indistinto, ma forse è bene ricordare che c’è un pezzo di mondo anche fuori dalle redazioni, ecco.