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Beethoven, Anderson, Negroponte: valutazione della qualità

Questo post è troppo lungo;
naturalmente a causa della fretta…

I giornali di qualità. Nel sottotesto del dibattito sul futuro dell’informazione, gli editori si richiamano costantemente alla locuzione “giornali di qualità”. Il che avviene nel contesto di una valanga di perplessità (vedi il dibattito su www.veri.ta) relative a come si difende la qualità dell’informazione in rete dale pratiche del vandalismo, dell’estremismo, dell’integralismo. Ma del resto, visto da un altro punto di vista, tutto questo non è lontano dalla più generale questione del minestrone culturale che emerge – non solo in rete ma nel complesso del sistema dei media – dal fuoco incrociato della strategia della disattenzione e del disinvestimento nelle istituzioni educative, universitarie, museali a favore di nuovi modelli culturali televisivi e finanziari.

L’occasione di discuterne, ieri, con Nicholas Negroponte era ghiotta. Proprio nella città del papa, acerrimo avversario del “relativismo”. E proprio insieme agli amici di Wired Italia, sempre ispirati dal direttore di Wired Chris Anderson, autore della coda lunga: ad Anderson avevo chiesto come emergerebbe nella coda lunga il valore della “qualità artistica universale” che una volta si poteva riconoscere in un Beethoven. Lui aveva risposto immaginando che Beethoven avrebbe cominciato suonando in un piano bar, sarebbe stato apprezzato da tutti, avrebbe raggiunto una grande notorietà con delle registrazioni su MySpace, avrebbe finito col pubblicare qualche disco e sarebbe diventato ricco con i concerti. In sostanza Anderson rispondeva parlando della costruzione della notorietà e dell’apprezzamento di qualunque autore, negando l’esistenza stessa di una nozione come “qualità artistica universale”. Ovviamente.

In generale, in un ambiente come la rete emerge l’apprezzamento per un autore o per un’idea attraverso un movimento che aggrega consenso e attenzione, dibattito e conversazione, stabilendo scale di priorità mai stabili ma piuttosto in continuo movimento. E questo avviene in base a preferenze, a comportamenti e a connessioni, che prendono vita attraverso le segnalazioni e i link, e che dimostrano l’esistenza di sistemi di valutazione impliciti nelle menti dei partecipanti alla rete. Ma tutto questo non chiarisce come si formino quei sistemi di valutazione della qualità.

In assenza di una discussione sul modo in cui si formano i sistemi di valutazione, non abbiamo neppure una discussione su come migliorare la qualità. E tanto meno riusciamo a mettere in questione la nozione di “giornali di qualità”.

La valutazione che avveniva nel mondo gerarchico, prima del successo della rete, era basata sulle istituzioni riconosciute dal tempo come fonte di qualità culturale: musei, università, editori… La rete ha aperto il gioco. Ora l’aggregazione di consenso attorno alla qualità riconosciuta nelle conoscenze e nei contenuti informativi dipende dai movimenti dei partecipanti alla rete. Un po’ come avviene nell’arte moderna: ci sono esperti e critici, artisti e curatori, ma in realtà fanno tutti parte di una sorta di rete, cioè si muovono partecipando alle dinamiche del mercato dell’arte dal quale sembra sembra emergere l’aggregazione del consenso sulla valutazione della qualità artistica (tanto che sempre più spesso si presenta come una specie di citerio oggettivo della valutazione della qualità artistica). Questo, in rete, vale per ogni idea e ogni opera. Ma è un processo vagamente autoreferenziale, modaiolo, instabile.

“Probabilmente è proprio così che deve essere” ha risposto sulle prime Negroponte. Non c’è modo di stabilire che un criterio di valutazione sia migliore di un altro. In un mondo globalizzato tutti i punti di vista hanno uguale valore. Già, ma come si formano tutti i punti di vista? La cultura di un bostoniano non è quella di un italiano o di un cinese, tutte hanno diritto a uguale rispetto, ma vengono da qualche parte.

Da dove?

In assenza di una discussione su questo, vale il consenso che si ottiene e di mantiene lì per lì. La qualità diventa quello che i più bravi a costruire consenso riescono a far credere che sia in ogni momento. Si apre la strada a una sorta di populismo inflessibile. E quando sono in molti a essere bravi manipolatori, si finisce per distruggere ogni consenso. Con gravi problemi a tutte le attività che richiedono coordinamento per progetti di lunga durata: come la pace, la convivenza civile, la salvaguardia dell’ambiente, la valorizzazione dei beni culturali, l’identità, i diritti umani… Insomma, ci si muove in stormi la cui forma emerge dalla complessità ma non si sa bene come decidere dove lo stormo vuole andare.

Non si torna indietro alla gerarchia. La rete è un enorme opportunità per includere nella costruzione del consenso l’attivia partecipazione di chiunque abbia qualcosa di intelligente da condividere. La gerarchia blocca l’intelligenza se questa mette in discussione il suo scopo. La rete mette in discussione ogni privilegio acquisito. E dunque impone che ciascuna posizione sia definita dalla sua capacità di mettersi al servizio dell’ecosistema…

Probabilmente, si riparte dalle culture, dalle antropologie, dice Negroponte. “Io mi comporto come un bostoniano perché sono crescuto in quella cultura”. Quindi c’è un sistema di autorità che trasferisce cultura e l’educazione diventa il centro di ogni altra questione.

Nel distruggere i privilegi inutili, la rete rischia di mettere in difficoltà anche le istituzioni educative? “La cosa più vicina che abbiamo a un’istituzione oggi è Google”. Oppure, Wikipedia. E’ dalle regole e dai metodi educativi impliciti in queste istituzioni – in queste piattaforme – che si può leggere il modo in cui emergeranno le nuove culture? E’ anche da riflessioni come queste che può venire fuori l’idea di una nuova “istituzione-piattaforma” pensata per la sua utilità al servizio della rete e consapevole dei suoi effetti “educativi”?

Un post troppo lungo non finirebbe mai. Meglio finirlo con una domanda. O no?

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  • Non mi trovo d’accordo con quest’idea di populismo inflessibile che rischierebbe di governare il web. Tralasciando il fatto che dare una definizione corretta di populismo è difficile almeno quanto valutare la qualità dei contenuti in rete, io ho sempre inteso tale termine come una strategia per ottenere consenso facendo leva su valori ed opinioni che si ritengono condivise da un vasto gruppo di persone su cui si vuole fare presa. Si tratta quindi di una strategia studiata, che ha mezzi ed obiettivi precisi, ed in quanto tale è poco basata sulla spontaneità.
    Tornando all’esempio della musica di Anderson mi domando se oggi siano più populiste case discografiche che basano la loro stessa sopravvivenza (vendita=consenso) sulla capacità di accontentare i gusti del pubblico selezionato come target, oppure una comunità che si aggrega spontaneamente attorno alla musica che il pronipote di beethoven ha pubblicato su myspace. Non dico che quest’ultima sia necessariamente “musica di qualità” e quella proprosta dalle major no, solo il metodo di selezione della qualità utilizzato dai professionisti non mi sembra meno “populista” di quello della rete, anzi..

  • mi scusi evidentemente mi sono spiegato male: il metodo della rete non è in discussione. è così e funziona così. punto e basta. quello che mi interessa è come si aggrega il consenso. e come evolverà l’aggregazione del consenso. e non mi pare dubbio che uno dei metodi è quello populista. ora: per difendersi dal populismo occorre sviluppare una cultura o delle culture che sappiano valutare la qualità dei contenuti almeno tanto quanto sanno valutare la qualità dei modi con i quali questi vengono pubblicizzati… in modo di non dipendere troppo dalle strategie di promozione… questo intendevo.

  • Il populismo in teoria dovrebbe raggiungere il culmine nella rete proprio per il fatto che questa elimina ogni mediazione. Però come estende al massimo l’istintività da bar, aumenta anche altre tipologie di discussioni che al bar sarebbe impossibile fare. Sarebbe interessante comprendere, ciò che non sarà mai affatto chiaro a mio avviso, quale linea di tendenza prevarrà e se esista questa linea. Ovvero se la comunicazione espansa da bar senza frontiere assuma prevalenza rispetto ad altre forme di scambio della conoscenza, intendendo con queste le forme di discussione critica della cosiddetta società civile.
    Nella riflessione finale metti in evidenza un aspetto (credo), che dipende strettamente dalla seconda domanda: i metodi impliciti delle piattaforme. Ho l’idea che sia proprio la naturalità della tecnologia che prevalga su ogni riflessione che abilita. Il determinismo si denega e proprio in quel momento, rendendosi naturale che espande i suoi effetti. La televisione dei primi anni era un modello di formazione poi ha sempre più abbassato lo sguardo per ricomporsi con il multichannel e a ognuno il suo gusto arriverà. Internet segue un percorso inverso? Se paragonata alla televisione, a mio avviso sì. Di certo quando una parte rilevante di risorse pubblicitarie saranno riversate on line, sarà più difficile distinguere tra informazione e pubblicità rispetto i media tradizionali.

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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