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Per la verità, c’è molto da fare

E’ vivo e appassionante dibattito partito dal pezzo di Gianni Riotta (direttore del giornale per cui lavoro) sulla qualità dell’informazione in rete. Ho lanciato un piccolo contributo a mia volta, sostenendo che la rete ha una caratteristica strutturale importante: critici ed entusiasti hanno tutti la possibilità di parlare e soprattutto hanno sempre qualcosa da fare. All’insegna dello slogan: Non chiedetevi che cosa può fare il web per voi: chiedetevi che cosa
voi potete fare per il web e avrete la risposta anche alla prima
domanda
.
Ora però sarebbe il caso di andare avanti con il raginamento: che cosa si può fare?

Il world wide web, la ragnatela grande come il mondo aveva questo nome
prima che fosse veramente globale. E per questo si potevano proiettare
sul suo futuro le utopie, di libertà civile e ribellione non violenta,
che la centralità dei media tradizionali aveva costretto a vivere nei
cieli suburbani, nelle cantine dei geek e nei laboratori delle
università. La nuova economia di Kevin Kelly e l’intelligenza
collettiva di Pierre Lévy, la democrazia emergente di Joi Ito e il beni
comuni della creatività di Lawrence Lessig, la convergenza digitale di
Nicholas Negroponte e il computer invisibile di Don Norman. E poiché è
sempre vero che tra le aspettative e le realizzazioni ci sono sempre
distanze incolmabili, le visioni, le utopie, i sogni e i progetti si
mescolano nella meravigliosa complessità dell’evoluzione della specie
umana.

Di quali aspettative stiamo parlando? Un mondo che si
sappia raccontare con la voce dei suoi abitanti, non solo con quella
dei suoi potenti. Nelle università, da dove per prima la rete si è
popolata, i ricercatori facevano giusto l’esperienza di questo genere
di medium. Perché non poteva allargarsi al pianeta? Mercati e
democrazie nei quali consumatori e cittadini abbiano la possibilità di
conversare alla pari con le corporation e i partiti. Comunità che si
autoregolano per portare all’attenzione della società aspetti della
realtà che le televisioni dimenticavano. Saperi non più chiusi nelle
biblioteche degli scienziati ma diffusi a tutti. Era troppo bello per
essere semplice. Quando Bill Clinton si lasciò scappare la sua
preoccupazione per il fatto che su internet circolavano le istruzioni
per costruire le bombe, non insistette. E quando Barak Obama ammise di
essere arcistufo delle critiche alle volte gratuite che gli piovevano
dal mondo dei blog non affondò il colpo. Perché non ha senso uccidere la speranza che è costituzionalmente parte della rete: perché niente impedisce ai critici e agli entusiasti che hanno un progetto per migliorare la situazione, di provare a
realizzarlo.

Se ci domandiamo perché la
società ha riposto tante speranze nella rete – e non soltanto perché queste speranze
rischino a ogni passo di essere tradite – possiamo approfondire da due punti di vista:
1. che cosa c’è nei mezzi di comunicazione e negli ambienti della convivenza tradizionali di tanto limitante da spingere un miliardo e mezzo di persone nel mondo ad adottare la rete come strumento per comunicare e centinaia di milioni di persone a vederla come mezzo per realizzare progetti e iniziative?
2. tra i progetti emergenti e le opportunità che si vedono in giro, c’è evidentemente un grande filone di sviluppo nel mondo dei servizi che possono favorire uno
sviluppo equilibrato e non violento dell’utilizzo della rete e della produzione intelligente di informazione. Che fare?

E’ innegabile che a quarant’anni dalla prima rete delle reti universitarie e a vent’anni dai primi passi della rivoluzione interettiana, lo spirito
delle minoranze visionarie si è mescolato in un grande ecosistema complesso nel quale ci sono purtroppo anche le pratiche dei leaderismi populisti e quelle dei gruppi violenti. Il pubblico attivo che ha
popolato il web divenuto mondiale si trova a vivere un clic accanto al pubblico cattivo.

Ma è tremendamente sbagliato pensare che questa vasta popolazione sia definibile in quanto internettiana: in realtà, il centro del problema è piuttosto il potere complesso del sistema dei media-minestrone, nei quali resta regina la televisione commeciale che funziona essenzialmente in base agli incentivi dell’audience purchessia. In questo quadro mediatico complesso, la rete è stata adottata massicciamente anche perché ha rimesso in equilibrio la relazione tra chi produce e chi fruisce, allargando le possibilità di produrre, esprimersi, connettersi. Ma la sorgente della qualità, della profondità, dell’intelligenza dei saperi e delle informazioni, che si scambiano sui media viene dalla vita, dalla cultura, dalla società nel suo complesso. La rete è e resta un abilitatore fortissimo di tutto questo. Ma si può fare meglio. Come favorirla?

Il senso di uno strumento tecnologico come il web è nell’interpretazione di chi lo usa. E il medium è fatto dalle persone che lo usano. Ma le regole implicite nelle piattaforme, nelle loro interfacce, nei sistemi incentivanti che contengono, hanno influenza sul risultato. Il principio è che un ecosistema equilibrato dell’informazione vive nell’infodiversità, non è pensabile programmare sintesi vincenti (non si può obbligare un’epoca ad essere illuminista o romantica o utopista) ma è pensabile che il metodo della collaborazione civile e non violenta prevalga sul metodo della disattenzione e del casino. Sarebbe bello lavorare su queste intuizioni, che per ora purtroppo sono solo intuizioni.

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Un contributo fortissimo viene da Edge: la domanda globale di quest’anno, appena lanciata, infatti è: “how is the internet changing the way you think?” Imperdibile.

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  • Nella rete c’è, a mio modo di vedere, tutto il bello e tutto il brutto della democrazia. Certo non della democrazia pura, ma di un sistema molto più democratico dei tanti in cui viviamo noi nel mondo “reale”. Nella vita “normale” basta cambiare un direttore di un giornale per cambiarne la linea editoriale. Le notizie che passano sono ancora troppo spesso quelle delle agenzie di stampa. Nella rete soffocare una notizia o un’idea è molto più difficile
    La rete dà la possibilità a tutti di essere protagonisti, nel bene e nel male, di dare un contributo o occupare spazio per niente o anche fare danni. Nel mondo “normale” queste cose le possono fare solo i potenti.
    La storia di Haiti di questi giorni dimostra però anche quanto questo strumento sia molto più potente di qualsiasi giornale, telegiornale o agenzia di stampa, di qualsiasi talk show, di qualsiasi biblioteca fisica, di qualsiasi gruppo sociale ecc.
    Insomma, la rete, a partire dalla rivoluzione del 2.0 è forse il luogo più democratico della terra. Certo: la democrazia è meno efficiente della dittatura, è più lenta, è più confusionaria, ma è anche più libera, più colorata, più viva e meno ingiusta.
    Come diceva Churchill, la democrazia è peggior forma di governo, ad eccezione di tutte le altre.

  • Il punto è: quali contenuti si possono considerare affidabili. Il fatto che i contenuti siano molti però, non significa automaticamente che non sia possibile – o addirittura semplice – selezionare quelli che sono attendibili.

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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