Grazie a Marco Formento per le sue postille al post di ieri sulle prospettive dell’informazione. Sono d’accordo con le sue precisazioni. E trovo bellissimo il suo richiamo all’autore come figura collettiva: è lo scopo e il senso di questo medium sociale che ci piace tanto.
E dunque torniamo al punto. Il tema che più fa discutere è in fondo la ricerca di un’ecosistema dell’informazione sostenibile, il meno possibile inquinato, qualitativamente valido.
1. Perché sia sostenibile, dicevamo, il consumo di risorse necessario alla produzione di informazione non deve superare le risorse che essa genera: il costo della produzione deve almeno pareggiare il ricavo. Questo può avvenire in diversi modi, classificabili in base al contesto: il mercato (vendita di prodotti editoriali e pubblicità), l’economia del dono (persone che condividono le informazioni in loro possesso), l’economia dei beni comuni (comunità che conoscono il valore culturale dell’informazione per l’insieme delle loro attività), lo stato (amministrazioni, democrazie e forze politiche che sostengono la pluralità di informazioni a loro volta interessate al dibattito politico). Ciascuna di queste condizioni va discussa. I diversi modelli non sono neutri in rapporto alle loro conseguenze.
2. L’inquinamento è costantemente possibile. In ciascun modello ci sono potenziali falle alla sicurezza dell’informazione. Nel modello basato sul mercato, per esempio, non possiamo non citare i latenti conflitti tra gli interessi dei lettori-compratori di prodotti editoriali e gli inserzionisti pubblicitari. Nel modello dei media sociali si rischia una scarsità di risorse per l’investimento nella ricerca di informazione, di coordinamento metodologico, di sistematicità nella verifica. Nel modello comunitario, nel quale fondazioni e società sostengono il lavoro di ricerca dell’informazione, si rischia la concentrazione sui temi più vicini alle forme della comunità stessa. Nel modello statalista si rischia la sterilità delle idee, a fronte degli interessi elettorali. Ma attenzione: tutti questi sono rischi, non certezze (benché i rischi del mercato e dello stato siano piuttosto elevati e i rischi dei media sociali e delle comunità siano tutti da verificare); e soprattutto le opportunità offerte da ciascun modello sono altrettanto importanti. Con molta umiltà, il nostro autore collettivo potrebbe andare avanti in questa direzione per analizzare rischi e opportunità in modo sistematico e non pregiudiziale.
3. I sistemi incentivanti che spingono il sistema nella direzione della qualità dell’informazione sono in via di trasformazione. Come dice Formento, non è certamente più l’autorità che stabilisce la qualità, ma è piuttosto l’autorevolezza che si conquista ogni giorno sul campo al servizio dei lettori. Ho l’impressione che, per tagliar corto con un post già troppo lungo, che la strada maestra sia quella di un ecosistema dell’informazione nel quale esistono tutti o quasi tutti i modelli citati, in modo che le differenti modalità d’azione moltiplichino le probabilità di un confronto e dunque incentivino il miglioramento qualitativo dell’informazione. Riducendo al minimo la disinformazione generata dai grandi poteri, inducendo alla verifica e alla discussione libera. Non si può dire che un solo modello sia sufficiente a tutto questo: si ha l’impressione che il continuo confronto sia più probabilmente efficace.
Ciò detto, quello che c’è di nuovo è che il modello della produzione editoriale di informazione giornalistica per il mercato non appare più destinato fatalmente al fallimento dal momento che si stanno sviluppando tecnologie innovative che potrebbero far ritrovare agli editori delle fonti di reddito non esclusivamente basate sulla pubblicità.
La produzione di informazione esclusivamente basata sulla pubblicità non è sufficiente. Per le ragioni appena riportate (infodiversità dell’ecosistema) e per ragioni specifiche. Nelle imprese editoriali i costi da sopportare sono ovviamente quelli del lavoro giornalistico e delle altre funzioni produttive ma anche quelli legati alla remunerazione del capitale. E fintantoché il capitale ragiona a breve termine, vede il flusso di reddito pubblicitario come del tutto equivalente al flusso di reddito che deriva dalla vendita di prodotti editoriali. Ma non è così nel lungo termine: perché in molti casi vale la regola spannometrica secondo la quale se il pubblico non è disposto mai a pagare per un prodotto editoriale vuol dire che non lo considera particolarmente importante, dunque sarà tentato di abbandonarlo in favore di un altro prodotto o di abbandonarlo tout court; il che esaurirà anche le fonti di reddito pubblicitario.
È dunque positivo che comincino a entrare in gioco tecnologie che possono ricreare nel pubblico la voglia di spendere per i prodotti editoriali (se ne parlava su Crossroads dopo un articolo pubblicato dal Sole cartaceo). Senza in nessun modo ridurre l’importanza degli altri modelli, e coltivando l’aspirazione all’infodiversità, anche l’esistenza dei prodotti editoriali tanto belli da far venire voglia di sostenerli pagando un prezzo monetario è un elemento di un ecosistema dell’informazione sano. Naturalmente, per cogliere queste opportunità non basta enunciarle: gli autori, i designer, i giornalisti, dovranno inventare nuove
soluzioni “narrative”, mentre le case editrici dovranno investire. Fare
ricerca. E crederci.
soluzioni “narrative”, mentre le case editrici dovranno investire. Fare
ricerca. E crederci.
Caro Luca,
Ispirato dalla discussione tra te e Marco ho prodotto alcune considerazioni integrative sul tema; cercando di portare la visione del Giornalaio.
Se interessa….mi pare tu sappia dove leggere, per scelta preferisco non “spammare” il link nei commenti.
Un abbraccio.
Pier Luca
grazie! 🙂 e allora lo metto io il link: http://giornalaio.wordpress.com/2010/01/11/nuove-prospettive-sul-futuro-dellinformazione-contributi-da-giornalaio/