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La strategia delle balle

La quantità di balle, smentite, affermazioni prive di fondamento nei fatti, questioni irrilevanti e boiate è stata gigantesca nel corso di questa campagna elettorale. 

E uno si domanda perché ci sia questa abnorme inflazione di nulla mentale, posto che prima o poi al confronto con i fatti le balle dovrebbero scoppiare e chi le dice dovrebbe perdere di credibilità fino a scomparire dall’orizzonte politico.

La ricerca delle risposte apre capitoli di riflessione che fanno tremare i polpastrelli del blogger:
1. Perché i politici non riescono a imporre un dibattito migliore o non vogliono farlo?
2. Qual è in pratica l’importanza della televisione nel dibattito politico?
3. Come funziona la manipolazione delle coscienze nel megareality sceneggiato per la società teledipendente?
4. Quali sono le dimensioni mediatiche alternative e perché non riescono a superare lo sbarramento televisivo?
5. Che cosa sta facendo la società di fronte a tutto questo?
Il blogger può anche enunciare queste domandine, le può rileggere con occhi critici o partecipi, poi può anche lasciar perdere. E cancellare tutto.
Ma la sofferenza di fronte al fatto che i politici non guidano il dibattito democratico verso questioni decenti ma stanno completamente ripiegati nella loro dimensione di potere è tanto grande che va almeno enunciata. I politici in un paese chiuso e gerarchicamente arcaico non hanno alcun incentivo a cambiare registro. Anzi. Se cambiano troppo, stonano. Se urlano poco sembrano deboli. Se articolano un ragionamento sembrano noiosi. Il fatto è che i politici si sono ingabbiati nella loro cupola e non sanno proprio come uscirne. 
Il modello della comunicazione televisiva, in particolare, li ha completamente avvolti nella stessa impenetrabile nebbia. La televisione è il medium nel quale massima è la distanza tra chi parla e chi ascolta. Chi parla è interamente definito dalle tecniche di comunicazione, dai ritmi imposti dal mezzo, dalle strutture fondamentali dell’organizzazione delle trasmissioni e del palinsesto. La quantità di persone che guardano la televisione è tanto grande e le loro personalità sono tanto indefinite dal punto di vista di chi parla da non avere nessun contatto, nessun feedback, se non quello che deriva dagli studi dell’audience e del marketing. Si può essere molto o poco sofisticati in queste attività, ma attraverso di esse non si può dialogare, si può solo definire una strategia di comunicazione. 
Il proprietario della televisione italiana è maestro nelle sue tecniche e conosce perfettamente il senso delle analisi che gli arrivano dai sondaggi. Non le usa per adeguarsi a ciò che vuole il pubblico. Le usa per capire come lo può manipolare. Le usa per capire come ottenere attenzione e picchettare nelle coscienze una storia, la sua, quella che vuole lui. La squadra dei suoi collaboratori è ormai rodatissima. Hanno una sceneggiatura, un insieme di voci diverse ma orientate allo stesso scopo, una comprensione perfetta dei modi con i quali addomesticare il senso critico del pubblico. E colpiscono alle parti basse: sesso, soldi, potere. Questi sono i valori con i quali attraggono e catturano la fantasia degli ascoltatori. Una volta occupato il quadro narrativo non lo mollano più e non hanno difficoltà a far sembrare gli avversari dei comprimari, troppo complicati da capire, troppo noiosi da seguire.
Quello che stupisce è che nella loro superficiale megalomania, gli avversari del proprietario della televisione italiana non si sono opposti frontalmente alla logica televisiva. Non hanno tentato di abbattere il monopolio televisivo. Non si sono preoccupati di sviluppare un sistema mediatico alternativo. Finora. Perché hanno pensato che anche a loro facesse comodo un mezzo di comunicazione di massa facile da usare per governare. Peccato che non sia per niente facile da usare. E che loro non siano minimamente bravi quanto il loro avversario a usare la televisione. Perché non si tratta soltanto di parlare in tv: si tratta di costruire una cultura della tv, un’antropologia, un’economia, una società della tv. E tutto questo è in mano al loro avversario.
Gli italiani che seguono quanto raccontato dalla struttura fondamentale della tv e se ne lasciano manipolare non sono scemi. Se è vero che il 50 e rotti per cento degli italiani accede alle notizie solo con la tv, però, è chiaro che non hanno gli strumenti critici per confrontare l’informazione televisiva con le altre. 
Uno zoccolo così grande della società che si informa solo con la tv (dati Censis) è tale che anche molti altri media ne sono influenzati. E se i giornali o la radio riescono a mantenere un briciolo di indipendenza dall’influenza televisiva, appare evidente che non riescono a cambiare la sostanza della sceneggiatura raccontata dalla tv. Possono talvolta intervenire. Possono talvolta partecipare. Ma non stanno riuscendo a cambiare la trama del telefilm.
La speranza viene da internet. Ma quello che il pubblico attivo sta facendo su internet è ancora poco consapevole e limitatamente influente. Il che è fisiologico. Ed è il bello del medium internettaro. Ma quale può essere la conseguenza strategica del pubblico attivo sulla società teledipendente?
Massimo Mantellini lo ha raccontato in un magnifico post. Le persone con un blog possono dire se stesse, possono condividere emozioni e opinioni, momenti della loro vita. Questa è la ricchezza dei blog. Non sono se non in parte orientati a fare informazione (dice a ragione Massimo citando i suoi lunghi conversari con Luca Sofri).
In realtà, internet offre gli strumenti per far nascere giornalismo alternativo e chi li vuole usare lo può fare. Questo avrà un’influenza tanto maggiore quanto più sarà portato avanti con un metodo giornalisticamente corretto e trasparente. Potrà avere qualche influenza sulla disponibilità di informazioni sui fatti più precise e più intelligenti, perché lo spazio e la qualità dell’informazione dei cittadini sono cresciute nel tempo e possono crescere ancora molto. È grandioso. Ma non è tutto.
L’impatto di un mezzo nel quale il pubblico attivo può esprimere la propria vita, le proprie piccole o grandi esperienze, i punti di vista, i fatti della vita, le emozioni e le connessioni con gli altri è potenzialmente ancora più importante del pur fondamentale obiettivo di migliorare del pluralismo informativo. Perché può influire sulla sceneggiatura: sul racconto generale che la società fa di se stessa.
Se la televisione è riuscita a sostituire il quadro narrativo nel quale le persone pensano di vivere con una sceneggiatura basata su episodi di fiction, personaggi costruiti e valori animaleschi (sesso, soldi, potere), l’internet popolata da un pubblico attivo può dare luogo a un racconto alternativo basato su persone vere, fatti reali e valori un po’ più articolati. Capaci per questo di coinvolgere in discussioni su questioni meno animalesche: ricerca della felicità, dinamiche della partecipazione, scelte di solidarietà, regole della tolleranza, crescita della cultura, equilibrio ambientale, affermazione di identità condivise. Non che il pubblico attivo non sia attratto dai valori bassi (sesso, soldi, potere), ma di certo ha dimostrato di essere capace di generare fascinazione anche intorno a valori alti (amore, felicità, solidarietà).
La società è oggi altrove. Non crede più alla sceneggiatura televisiva. Casomai la segue perché si diverte, in mancanza di meglio. La società soffre perché non vede da nessuna parte chi la rappresenti. E non vede una prospettiva. Cerca un nuovo inizio.
Intanto, va avanti. Percossa dalle menzogne. Influenzata dalla strategia della disattenzione. Preoccupata per i propri figli.

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  • Caro Luca,
    condivido la tua sofferenza davanti alla pochezza del dibattito politico italiano. Direi al dibattito in generale. Il meccanismo unidirezionale della televisione, il modo in cui si costruisce il senso e la narrazione su questo mezzo sono sicuramente una delle cause di questo degrado. Forse la causa più evidente. E certo qualcuno è stato capace, negli ultimi venticinque anni, di modellare le aspettative e i sogni di buona parte della società a proprio vantaggio.
    Comincio però ad avere qualche dubbio sul fatto che internet rappresenti, come tu sostieni, una soluzione o almeno una possibile via d’uscita da questo tunnel della cultura. Sto leggendo un libro di Andrew Keen, uscito in Italia da poco, ma scritto circa un anno fa, che si chiama Dilettanti.com. La tesi, che mi trova in buona parte d’accordo, è che il web 2.0 rappresenti un ambiente in cui la distinzione tra il vero e il falso, tra fatti e opinioni diventa sempre più labile. Chiunque può pubblicare qualsiasi cosa, e l’autoespressione diventa il fine.
    Mi pare che questo non contrasti, ma anzi integri ed espanda la neocultura televisiva. La cultura dell’approssimazione, del dilettantismo, in cui basta essere per esserci. Quella in cui si scrive senza leggere, si parla senza ascoltare, si fa senza saper fare.
    La quantità di informazioni incontrollate e incontrollabili finisce per mischiarsi in un enorme calderone dove qualsiasi fatto, tesi, idea, contenuto, è contemporaneamente vero e falso.
    Questo non finisce per rafforzare quella che chiami “strategia delle balle”?

  • Hai ragione ad essere preoccupato della qualità di quanto viene detto online. Lo sono anch’io. Ma il punto che mi interessa è che c’è una differenza sostanziale tra internet e la tv. Ed è una differenza di struttura mediatica. Su internet si possono mimare i comportamenti televisivi. Ma si può anche fare altro. E tutti sono fatalmente minoritari e marginali. Solo connettendosi diventano forti. Ora: se questo è vero, la preoccupazione sui singoli contenuti è meno rilevante della speranza sulla struttura del mezzo. Mi spiego: la televisione è fatalmente orientata a fare quello che fa perché può e deve imporsi a un pubblico enorme e indistinto. Le persone che si esprimono in rete invece sono fatalmente orientate a cercare di connettersi ad altre persone che valgono più o meno quanto tutte le altre. Certo, i picchi delle blogstar sono molto alti rispetto ai blogregular, anche se la distanza non è quantitativamente enorme (coda lunga). Ma il punto è che le blog star non sono dove sono perché possiedono un mezzo che altri non hanno. E di fatto non esistono se non si connettono, se non interloquiscono, se fanno solo broadcasting. Questo deriva dalla struttura del mezzo. E quindi può far evolvere i contenuti in una direzione migliore di quanto appaia ora. In sintesi: mentre i contenuti importanti non hanno nessuna possibilità di passare in televisione se non episodicamente, i contenuti importanti hanno moltissime probabilità di essere pubblicati e qualche probabilità di essere riconosciuti in rete. La differenza tra quasi zero (tv) e forse qualcosa (internet) è molto grande. Perché non vederla dal punto di vista della speranza?

  • “Il modello della comunicazione televisiva, in particolare, li ha completamente avvolti nella stessa impenetrabile nebbia. La televisione è il medium nel quale massima è la distanza tra chi parla e chi ascolta. Chi parla è interamente definito dalle tecniche di comunicazione, dai ritmi imposti dal mezzo, dalle strutture fondamentali dell’organizzazione delle trasmissioni e del palinsesto”.
    E’ bella questa analisi “strutturale” della comunicazione televisiva dominata da meccanismi a cui volente o nolente chi partecipa (ospite o conduttore) è costretto a piegarsi.
    Forse è anche per questo che le trasmissioni di “approfondimento” giornalistico restano uno dei pochi luoghi al mondo in cui si finge di non vivere in un universo interconnesso e always on.
    Capita, in queste trasmissioni (anche nelle migliori come Ballarò o Anno Zero) che si possa discutere per minuti e minuti se qualcuno (il più delle volte il proprietario della televisone) abbia o meno fatto una determinata affermazione.
    Spsso basterebbe un giovane redattore armato di portatile e connessione che, con una veloce ricerca su Google, YouTube o sui siti di quotidiani e tv, trovasse le immagini e le informazioni in questione. Si scioglierebbe così ogni dubbio permettendo al programma di andare avanti anziché avvitarsi sul nulla.
    Basterebbe poco, mi viene da dire da profano della televisione. Ma forse i costumi, i meccanismi, la cultura televisa, anche quella delle trasmissioni migliori, sono talmente autocentrati che non prevedono l’incursione in un altro medium. Anche quando questo permetterebbe di diradare un po’ di nebbia.

  • Ciao Luca, condivido in pieno il tuo articolo e il pensiero.
    E’ per anche per questo che stiamo lavorando per trovare una soluzione per rendere il mondo un posto migliore!
    La differenza la faranno sempre le persone e la propria intelligenza, e prima o poi il mondo che vogliamo che sia, lo sarà…
    Roby

  • Cosa ha consentito alla società americana un cambiamento così repentino e
    radicale dopo otto anni di dominio di una visione politica ottusa e dominata dall’arroganza dell’ignoranza?
    La gran parte della di quella società sembrava accettare e sostenere quella visione, in maniera acritica e passiva.
    E un’opposizione debole,con poche idee e senza una strategia decente non aveva molte speranze di innescare un cambiamento.
    Allora cosa è successo? Obama, certo, i suoi ideali, i suoi sogni lucidi, la sua capacità di coinvolgimento ma anche la capacità di riaggregare le forze progressiste della società americana attraverso l’utilizzo di modelli di comunicazione e di interazione reticolare e p2p (e, si badi bene, non solo online).
    Questo ha permesso di bypassare canali tradizionali di informazione (mass media,
    comunque molto lontani dal (non)pensiero unico imperante da queste parti) e di ricostruire un tessuto, un patchwork sociale propositivo, proattivo e consapevole della complessità della realtà, i cui frammenti erano prima immersi, isolati e autoreferenziali, nel blob stagnante del consenso acritico.
    E’ possibile in Italia attivare un tale processo? E intorno a quale progetto di futuro? Quali sono gli enzimi che possono riattivare un metabolismo immerso in un sonno senza sogni? Quali i nuclei di condensazione del cambiamento?
    La Rete è uno di questi, per me, ma le conversazioni devono evolvere,
    contaminare il quotidiano offline e riattivare le forze creative della società.

  • L’Italia della tv è quella dei reality, quella del gossip, del commento superfluo e dell’opinione qualunque. Prima arrivò il tuttologo, poi giunsero i reality ed ora è il momento delle commissioni e delle accademie. Farsi gli affari degli altri è il passatempo preferito degli italiani ed è per questo che non mi stupisco della classe politica che ci rappresenta, ormai priva di argomentazioni serie.

  • Informare ora sul rinnovo dei Rettore delle Università italiane, per non piangere dopo …
    COMUNICATO STAMPA
    Il vento del cambiamento soffia sulle università italiane:
    oltre all’Ateneo di Sassari, 20 università su 80 rinnovano il Magnifico.
    E’ tempo di elezioni per le università italiane e così circa 20 atenei su 80 si preparano a eleggere un nuovo rettore o come spesso accade a confermare quello uscente. L’anelito al cambiamento alimenta i programmi dei candidati in alcuni casi resi noti al grande pubblico con blog e siti interattivi secondo le modalità del web 2.0.
    Futuro, cambiamento, governance, competitività, internazionalizzazione, didattica e ricerca sono le parole che ricorrono con maggiore frequenza nei programmi di oltre 43 aspiranti Rettori, tra i quali si contano solo tre donne. Il tutto ovviamente con l’attenzione di chi sa di dover fare i conti dolorosi con i tagli e le restrizioni imposti dal Ministro Gelmini.
    Alcune università hanno appena eletto il loro nuovo Rettore, per esempio Bologna, Urbino e Cassino, o confermato quello uscente come nel caso di Chieti-Pescara (Cuccurullo), Pavia (Stella), Catania (Recca). In questo caso una conferma guadagnata senza sottrarsi al confronto con cinque candidati tra cui una donna e l’outsider professor Strano, filosofo e docente di estetica che con il suo codino e un programma incentrato sul ruolo dell’agoracrazia ha attirato l’attenzione dei media locali e del mondo universitario nazionale. A Trieste e Bari l’elezione è stata invece una vittoria facile dei rettori uscenti e per giunta unici candidati.
    In altre università tra le quali Sassari, Cagliari, Firenze, Bergamo, Iuav e Ca’ Foscari di Venezia la sfida è ancora aperta e il finale non è assolutamente scontato.
    Il cambiamento in Sardegna riguarda entrambe le università e avviene in un situazione che sta assumendo il carattere d’urgenza. Basta dare uno sguardo ai dati del 2006 dove emerge che in Sardegna rispetto alla media nazionale la spesa in istruzione, formazione e ricerca è sotto del 2,5%, il tasso di occupazione è sotto del 10% mentre il tasso di disoccupazione giovanile ha sfiorato il 19%, mantenendo anche un grave scarto di genere di 28 punti percentuali a sfavore delle donne.
    Nell’Ateneo di Sassari, dopo 12 anni di rettorato del prof. Maida in carica dal 1997, si voterà il 18 giugno. La sfida è fra Pietro Luciano, preside della Facoltà di Agraria e promotore del progetto “Sassari Ateneo Sostenibile” e Attilio Mastino, pro-rettore uscente. Entrambi i candidati sono impegnati in incontri e presentazioni del loro programma comunicati anche nei blog e nei siti personali. Essere l’ousider della situazione ha spinto il candidato Luciano a farsi promotore di un’intensa attività di ascolto del territorio con la quale ha raccolto opinioni e proposte di 50 interlocutori esterni all’università (responsabili di istituzioni e imprese) e 30 interlocutori interni (presidi di Facoltà, direttori di Dipartimento, rappresentati del personale e degli studenti). L’attenzione al territorio emerge anche dal suo programma dove insieme alle proposte su didattica, ricerca, amministrazione, organizzazione e governance, Luciano propone di creare la Fondazione Università di Sassari con il sostegno economico-finanziario dei soggetti del territorio, pubblici e privati; strutturare l’Incubatore per nuove imprese e nuove professioni; realizzare l’Osservatorio permanente sulla domanda di formazione; organizzare il Forum internazionale di alta formazione e ricerca scientifica per lo Sviluppo Sostenibile del Mediterraneo e, infine, pubblicare il bilancio sociale di Ateneo al termine di ogni anno accademico.
    Il cambio di Rettore nell’Università di Cagliari arriva invece dopo 18 anni di rettorato del prof. Mistretta, in carica dal 1991 e che nonostante i suoi 76 anni rivela in un’intervista che sarebbe rimasto volentieri al suo posto. L’ateneo cagliaritano sarà guidato da uno dei 3 candidati rimasti in gara (prima erano cinque) tra i quali la professoressa Maria Del Zompo. La sua vittoria sarebbe un evento davvero significativo dal momento che nell’università italiana le donne arrivano alla massima carica molto raramente. Su 80 università italiane solo 4 sono guidate da donne e questo accade mentre Harvard è guidata da una donna già dal 2006.
    A Bologna, sulla basi di una rosa di 7 candidati, tre tornate elettorali e il ballottaggio con l’ex preside di farmacia Giorgio Cantelli Forti, è stato eletto il 29 maggio scorso il nuovo Rettore Ivano Dionigi, latinista di fama internazionale, pesarese di origine, che seguirà il prof. Calzolari in carica dal 2000. Opportuno sottolineare che all’Alma Mater la sfida, nonostante 7 candidati, è tutta al maschile. Comunque un ricambio che arriva dopo “solo” 9 anni, decisamente presto rispetto ad alcune università italiane dove i rettori a seconda dello statuto possono rimanere in carica per decenni. A titolo di cronaca segnaliamo che al momento il primato di “longevità” spetta all’università di Brescia dove il Rettore Augusto Preti è in carica dal 1983, cioè dai tempi del governo di Amintore Fanfani!
    A Firenze il Rettore Marinelli, giunto al secondo mandato, lascerà il posto a uno dei cinque candidati in lizza: anche qui tutti uomini.
    Sfida a due anche per gli atenei veneziani IUAV e Ca’ Foscari, con un dibattito che sta entrando nel vivo grazie allo spazio aperto nel forum dello stesso Ateneo e dove senza troppi indugi chi scrive rivendica il diritto a sottoporre idee e proposte per contribuire a costruire il futuro dell’Ateneo così come ogni giorno si contribuisce al suo funzionamento.
    Tutto questo fermento può davvero significare che le cose cambieranno? La possibilità c’è soprattutto se una volta eletti le enunciazioni “elettorali” lasceranno il posto all’azione, alla concretezza e alla realizzazione dei programmi. A patto però che le azioni vengano intraprese con concretezza, lungimiranza, attenzione al territorio e cultura della sostenibilità. Insomma in altre parole attendiamo di vedere realizzate “grandi ed eccellenti cose”. Del resto non è forse questa la legittima aspettativa creata dal significato del titolo “Magnifico” che spetta ad ogni Rettore?
    Con preghiera di cortese pubblicazione
    Sassari il 4 giugno 2009 Ufficio Stampa
    Lidia Marongiu 335 7402475

  • Semplicemente condivido quanto hai scritto, con l’aggiunta che Internet oltre ad una libertà di espressione maggiore della TV, ha unpotenziale enorme dato dall’interattività dei partecipanti, dal ritorno al vero dialogo.
    Si dovrebbe tronare anche al dialogo diretto nelle vie e piazze delle nostre città, ma non c’entra con il confronto da mezzi di diffusione di informazione.

  • Condivido l’analisi iniziale, meno quella finale. Non mi pare ci sia alcun segno di cambiamento del quadro mediatico grazie a internet, o non in meglio. Ammesso che parlare di sè e delle proprie emozioni su un blog sia un passo avanti per costruire un’idea diversa di società (e io un po’ ne dubito, ma sono fatto così…), l’impatto complessivo di internet come mezzo per acquisire informazioni è ancora bassissimo rispetto alla tv, e anche l’informazione che si acquisisce via internet temo non sia quella dei blog ma delle grandi testate (almeno: hanno molta più importanza, e l’avranno anche in futuro, i media mainstream, che ripetono anche su internet la sceneggiatura della tv).
    Insomma, non vedo gli stessi segnali ottimistici. Non sulla/dalla rete. Dove sbaglio?

  • L’analisi ha ben poco da aggiungere, è ineccepibile. Le speranze sono il terreno minato.
    Qualche strana fatalità della sorte mi viene in mente, più nel dibattito storico dei Media research venivano alleggeriti gli effetti della televisione, venendo fino a noi, più questa stritolava la politica nel suo Media logic.
    La visibilità non esisteva nei vocabolari di scienze politiche prima di Mammì. Se la valutazione delle cariche pubbliche dipendono dalle possibilità offerte dalla “visibilità”, e questa presuppone risorse ingenti da disporre personalmente per l’accesso ai media diffusivi, finché il paradigma sarà quello, l’exit strategy è tutta da costruire.
    Sono anni che sento dibattere sul controverso tema dell’influenza della tv nelle decisioni politiche. Argomento sofisticato, la cui complessità è servita spesso per ribaltare l’onere della prova. La domanda più fuorviante che ho sentito: si vince perché si possiede le televisioni? E molti studiosi di comunicazione politica risponderebbero no!
    Ovviamente tutti si guarderebbero a sostenere come fa Ideazione per dirne solo uno, che c’è pluralismo a manna digitale terrestre o sciocchezze sulle teorie dell’interpretazione.
    Che si indaghi intorno all’information processing della Campus, risalatando il valore dell’esperienza personale e schemi del sé o che sono le chiacchiere davanti alla macchinetta del caffè di Tonello, questo non elimina che i framing su cui dibattere partono da lì, come sopratutto che chi conosce come vendere un vitasnella ne sa molto di più delle donne di qualsiasi commissione pari opportunità. Dallo scibile della ricerca politologica sembra che il perdurare della tipologia dell’elettore di appartenza, basti per sconfermare l’effetto potente della tv.
    Se ne sono sentite così tante di tesi complessivizzanti, che alla fine penso che ogni tanto servirebbe un burn out rileggendo Stronzate di Frankfurt.
    La manipolazione funziona perché è riuscita a negarsi in quanto tale. Ho scoperto l’acqua calda ma se venisse fatta una ricerca del genere, presumo che un buon 95% si sentirebbe immune se non offeso.
    Molti influenti intellettuali o opinon leader o si vergognavano ad ammetterlo o erano wishful thinking television, forse sottovalutando che la politica non è diversa dagli snack.
    Fatto rimane che la manipolazione ormai è passata di moda quindi ha vinto la sua battaglia.
    Ha funzionato perché è riuscita a negarsi in quanto tale. Chi penserebbe di esser condizionato deplorando o sorridendo davanti un reality? I Tg poi che ne sono le brutte copie? Ma scherzi tutti li criticano ma poi alla domanda di come si formano le opinioni, trovali quei 4 milioni e mezzo che leggono velocemente titoli e catenaccio. Non c’è tempo e non c’è molta voglia di ragionare. Questa è un’altra evidenza da cui predere atto.
    E se non si segue lo scatolotto è peggio ancora, bisogna ammettere anche questo, si esce dalla realtà con cui viene inquadrata.
    Il delitto non può esser perfetto però.
    Una alternativa nell’on line che abbia solo lo scopo informativo non è sufficiente. Per chi ha già autorevolezza, l’on line recepisce istanze della logica advocacy come una bomba, a quel punto però è un arma a doppio taglio. Tutti gli altri sono ancora schegge in piena ribalta espressiva. Molte persone si aspettano internet come scontro di civiltà tra media, quando invece sarà plausibilmente una ibridazione anche a livello organizzativo, almeno se ha come obiettivo la rilevanza.
    Il bello delle soluzioni che non ci sono è proprio la passione di cercarle per ora.
    Intanto qualche grande dotto proneo(con)tv si dovrebbbe vergognare per l’articolo che hai scritto.

  • […]Qualche settimana fa mi interrogavo: “Una domanda, una risposta. Chiedo tanto?”. Pochi giorni dopo il Times diceva di no. Luca de Biase oggi osserva lo stesso fenomeno e argomenta invece che sì, chiedo troppo. Secondo lui la strategia delle balle in Italia oggi funziona.[…]
    E noi ne siamo contemporaneamente complici e vittime. Ma anche gli artefici di un futuro diverso.
    Grazie Luca

  • Bene. Spegnete la TV. Leggetevi un buon libro, e poi per favore non cercate in ogni modo di farci sapere quanto vi è piaciuto, su Facebook, su Twitter, sui blog, al bar, con la speranza che un qualunque conduttore vi noti e vi chiami in… televisione.
    A mio parere, ma questo chissenefrega, qualunque sia il mezzo con cui ti arrivano le cose se non hai un filtro robusto in testa ti bevi tutto. Il problema è che quasi tutti vogliono solo sentirsi raccontare qualcosa che li rafforzi nelle loro opinioni. Nessuno è libero dalle proprie opinioni, come voleva il colonnello Walter E. Kurtz. E quindi, chiudete anche il giornale, tanto è lo stesso.

  • Anche la cosiddetta rete libera soffre tuttavia della stessa malattia. Prendi Wikipedia. Ci sono attori, scrittori, artisti italiani che sono stati cancellati perché non sufficientemente enciclopedici, avendo solo “poche opere”, peraltro pubblicate, mentre nella pagina di Corona c’è addirittura la lista delle infrazioni effettuate con l’auto… Si confonde l’enciclopedicità con il gossip. Non ho controllato, ma magari hanno già messo una pagina su Noemi e se non c’è ci sarà appena diventerà qualcosa (modella, subrette, ministro). Lo stesso vale per la blogsfera: i blog si raggruppano in elite, in bolle che si referenziano a vicenda creando circoli chiusi che si sostengono. Non basta avere buoni contenuti per fare breccia nella rete, perché la rete non è diversa dalla realtà e chi ci sta dentro non è diverso da chi è andato a votare per non cambiare nulla ancora una volta.

  • @Marco, che tutti vogliano avere i 15 minuti di celebrità non è riprovevole. E’ anche per questo che si scrive (ho la domanda “ingenua” che facevi sulle epiche dei commenti). Che senza competenze critiche si prende tutto per buono, può esser un argomento necessario per sostenere più l’istruzione. Di converso, la tendenza a ridurre la dissonanza cognitiva, avvalorando in forma consolatoria ma anche aspirazionale tutti i messaggi che ci confermano, trova proprio un suo limite nei linguaggi analitici, non solo perché ti costringono a ragionare, ma anche perché puoi rifletterci. Con la scrittura se non si comprende puoi rileggere, l’immagine svolazza via. Poi anche a prescindere da effetti conversione o rafforzamento, che la tv è molto più influente dei tre gatti che leggono dopo cena è ovvio. Un pò meno come si fa a difendere uno scatolotto del genere. Lasciamo anche che faccia bene il suo lavoro di ancella dei sogni, non l’informazione.
    Cosa dovrebbero fare? Dare tutti gli introiti (adv + canone) e i costi che spendono in informazione (quella pubblica) ad una fondazione con scopo sociale inchiesta. Se il livello di soddisfazione non è quello della missione informativa, via, un’altro soggetto entra.

  • @Emanuele: d’accordo. Una sola osservazione: il problema, anche nella blogospera (senza h, ihihih) etc. è che si vuole la celebrità (non so se dai tempi di Warhol sia cambiato qualocosa rispetto alla durata…) non per qualcosa (perchè si è bravi, si è intelligenti, al limite si è belli), ma perchè perchè. Come diceva l’indimenticato Frassica “Complimenti per i .. complimenti”.

  • @marco: se ti leggi Metitieri: Il Grande Inganno del Web 2.0 probabilmente lo apprezzaerai. Una lettura a tratti esilarante, ma più in generale buona, semplice e genuinamente informativa – cosa non da poco – di chi aspira a parlare a tutti.

  • Apprezzo molto l’intenzione del post, ma non condivido del tutto la critica alla televisione.
    La televisione è qualcosa di più di quanto possa apparire dalla visione degli schermi nostrani.
    Da una parte il concetto di servizio pubblico non è una chimera. La BBC è un esempio positivo. La RAI un esempio negativo.
    Dall’altra la moltiplicazione dei canali grazie al digitale dovrebbe mettere il telespettatore in condizione di costruirsi una propria narrazione selezionando i contenuti preferiti in base ai propri gusti e interessi personali.
    Tuttavia considerando quanto sta accadendo in Italia attorno al digitale terrestre non posso che darle ragione.

  • No Marco, le porte sono girevoli finché si sottovaluta. Lo sai che non si parla di deliri d’onnipotenza repressi o di eroi per un giorno.
    Se ti va bene così d’altronde..
    Io credo sia un eccesso di tolleranza però.

  • Intendevo che sfondi porte aperte con me. Ho fatto la collezione di libri scettici sul Web 2.0 e sullo user generated content ect etc etc. e sono d’accordo con quasi tutto. Va detto però che questo è il Paese dei poeti incompresi, dei grandi romanzi nel cassetto, degli inventori dell’acqua calda e ora dei blogger de noartri. E’ l’altra faccia della creatività italica: mica tutte le ciambelle vengono con il buco (anzi).

  • Mi pareva, ora è tutto chiaro. Ho solo ho sempre pensato la stessa identica cosa e con le medesime sfumature. La cosa più eccentrica di tutti questi fermenti, che non riesco a spiegarmi, è come mai la Stampa abbia aspettato alla finestra, prima di sfruttarle. Detto brutalmente.
    Dalle parti delle agenzie di marketing invece siamo all’invenzione continua di neologismi, usati per confondere chi dovrebbe pagare. Infatti non pagano e decidono di far chattare la segretaria (che lo faceva comunque di nascosto). Questo non mi fa cadere le braccia però, sono convinto che in un anno x (breve), se il discorso è riferito alla sola informazione professionale (una sorta di giornalismo avanzato), tali iniziative, possono bucare le orecchie, se entrano in rapporti di partnership con la stampa, nella tendenza spinta a specializzarsi.
    Ma anche nei servizi tradizionali come inchieste e negli approfondimenti su determinate tematiche, che verrebbero esternalizzate dalla strutture pesanti dei media. Dipende da come decideranno di riposizioneranno.
    Esempio, per un giornalista avveduto, esser editore sarebbe un attimo on line, basta un buon progetto e l’affidabilità delle fonti che ci sono.
    Questi non sarebbero blogger certo, ma reti organizzate di servizi informativi, che remunerandosi anche con altre modalità di ricavo, abbatterebbero i costi per chi le diffonde.
    Sarebbe un’innovazione organizzativa (di sourcing) ma anche di mercato nei fabbisogni informativi di riferimento. Quali? Tutti quelli per cui la stampa tradizionale lascia esuli, ma anche quelli che costano troppo perché prodotti da agenzie di consulenza. In mezzo c’è di tutto e per tutti i gusti. Strumenti per recepirli ce ne sono abbastanza da confondere le idee.
    Quello che già succede ma meno diretto verticalmente, con più specializzazione e decentramento. I giornalisti interni diventerebbero o coordinatori di fonti o editori dell’editore.

  • I partiti tradizionali (PD e PDL) crolleranno presto sotto il peso delle loro contraddizioni e alla TV non crede piu’ nessuno.
    Lo dimostra il forte successo della Lega e dell’Italia dei Valori.
    Secondo me e’ questione di portare pazienza e di avere speranza.
    L’Italia e’ un popolo di vecchi, ma prima o poi i vecchi muoiono ed i giovani prendono il sopravvento con le loro idee e le loro tecnologie comunicative (meno TV, piu’ Internet).
    Questi mutamenti richiedono tempo, pazienza e speranza. In alternativa si puo’ sempre cambiare Paese.

  • Sull’analisi nulla da dire. Condivido anche che siano le persone a fare la vera differenza.
    E’proprio questo il punto. Le persone. Internet richiede di essere attivi. Internet richiede tempo ed il tempo lo si trova solo se si ha interesse. La questione è: le persone VOGLIONO essere attive? a parole sì, ma nei fatti?
    Se come rileva il censis il 60% degli italiani determina la propria scelta elettorale sulla base di quanto viene trasmesso in TV, probabilmente è perchè non hanno voglia di verificare.
    Ricordo uno dei “comizi/spettacolo” che Grillo ha fatto in Veneto in questi giorni di campagna elettorale. All’ennesimo urlo: “Vai Beppe!!”, lui si è girato e ha risposto: “No, alza il culo e inizia a muoverti tu!”.
    Quello che urlava “Vai Beppe!!” è l’esempio di un atteggiamento diffuso: non si ha voglia di mettersi lì, sbattersi, alzarsi dal divano, prendere il portatile, accenderlo, andare in rete e mettersi a cercare… è più facile prendere il telecomando, premere un bottone e non pensare. Meglio avere qualcuno che digerisca per te le informazioni, che te le selezioni, piuttosto che costruirti la tua informazione e cercare di farti una tua idea.
    So di risultare un po’ pessimista. Come non esserlo però quando mi sento dire “Seguo Vespa per capire cosa fare” o “In TV hanno detto, quindi è vero”?
    Quindi, e concludo. Resto convinto dei mali che affliggono il sistema di informazione; condivido che la rete sia una alternativa ma prima, molto prima, si deve passare per una “educazione” delle persone all’attivismo. Altrimenti restano discorsi fatti solo tra “addetti ai lavori”.

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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