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Mazza, Fimi: i giornali cambiano musica?

Ricevo e, con il consenso dell’autore, riporto qui una mail di Enzo Mazza, presidente della Fimi. Mazza pensa che i giornali siano in contraddizione: quando si trattava di parlare di musica gratis erano d’accordo, ora che hanno problemi con i giornali gratis cambiano idea. E cita un pezzo firmato da me e Mario Platero nel quale si riportano le opinioni di editori che parlano di “pirateria” contro i contenuti dei giornali. Peraltro, la “pirateria” contro la musica era fatta dai consumatori; quella presunta contro i giornali è eventualmente fatta da piattaforme che riprendono automaticamente e rilanciano i notiziari. Commento sotto. Ma vediamo prima la mail di Mazza…

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Caro
Luca,
leggo in questi
giorni del dibattito sul futuro della stampa e della “monetizzazione” dei
contenuti giornalistici wul web
Oggi ho letto
questo
.
 
Il tema
dominante di questo convegno occupa da tempo il dibattito sui media: come
evitare la “pirateria” dei giornali tradizionali sulla rete e come tradurre in
reddito “digitale” il “content” dei prodotti cartacei”
 
Tuttavia trovo
qualche contraddizione con molte delle affermazioni che hanno riempito i
giornali negli anni scorsi quando si trattava di parlare di altri settori che si
trovavano di fronte alla rivoluzione digitale e cito anche un tuo
recente articolo sul blog (il neretto è mio) a summa del pensiero dominanate
nella stampa
 

Ma mi pare utile sottolineare
che:
1. Il copyright è un diritto che tutela prima
di tutto gli autori. Viene dato in licenza in modo deciso dagli autori: o
affidandolo a editori o al pubblico anche nella forma dei creative commons.
Serve a ripagare gli autori del loro lavoro. E gli autori lo possono monetizzare
o donare al resto del mondo.
2. Il sapere che non è soggetto a diritto
d’autore è nel pubblico dominio. Nell’epoca della conoscenza il pubblico
dominio
e i creative commons sono la grande ricchezza dell’ambiente
culturale dal quale le persone traggono alimento decisivo. Il valore in
quest’epoca è concentrato nelle idee, nelle informazioni, nel senso condiviso.
Un ambiente culturale nel quale si può accedere liberamente a una conoscenza
ricca e utilizzabile è un ambiente nel quale per persone possono creare il
valore che conta.
3. Le lobby delle major tentano da molto
tempo di allargare il perimetro del copyright, allungandone per esempio la
durata, a scapito del pubblico dominio. E’ una reazione alle perdite che
subiscono per la pirateria ma è anche una strategia volta a rispondere
alle insaziabili esigenze della logica finanziaria (che i giornali invece non avrebbero ?
ndr)
4. Internet ha moltiplicato le
opportunità culturali delle persone e migliorato la ricchezza dell’ambiente dal
punto di vista dell’accessibilità della conoscenza
. Ha anche reso più
facile infrangere il diritto d’autore. Le lobby delle major tentano di
rispondere al loro specifico problema cercando di modificare l’essenza stessa di
internet. Quando chiedono ai governi di estendere la responsabilità della
salvaguardia del diritto d’autore ai provider di accesso a internet e dei
produttori di software per la condivisione dei contenuti in rete, di fatto
tentano di reprimere uno specifico abuso bloccando tutta la rete: quello che
chiedono, metterebbe in discussione la neutralità della rete e la capacità di
innovazione, minando alla radice la bellezza, l’efficienza e la qualità di
internet. E distruggendo valore per l’intera società.
5. I governi devono modernizzare le regole
trovando un giusto equilibrio tra gli interessi specifici delle major, i
sacrosanti diritti degli autori e il valore sociale, culturale e
strategico del pubblico dominio
e dei creative commons. Si tratta di
salvaguardare un intero ecosistema e non soltanto l’interesse di una sua
parte.
 
IMHO i giornali
hanno cavalcato per anni l’onda del tutto gratis, dell’anti copyright e della
libera condivisione dell’informazione quando ciò riguardava altri settori dei
media per trovarsi oggi a convicere gli stessi soggetti (consumatori) che una
news forse si dovrebbe pagare 99 cents perchè non è di pubblico dominio e la
logica finanziaria prevede che se tutto è gratis gli imperi editoriali
andrebbero a gambe all’aria.
 

Enzo Mazza
Presidente
FIMI –
Federazione industria musicale italiana Galleria del Corso 4
20122 Milano

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Cerco di rispondere:

Non c’è alcun consenso intorno alla questione degli effetti delle piattaforme come Google News sul business dei giornali. Il pezzo di Platero e mio parlava di quello che pensano gli editori preoccupati per il loro business. E orientati a costruire una piattaforma di aggregazione di notizie tutta loro, in modo tale che non perderanno la pubblicità che ora va sulle piattaforme. Certo dovranno trovare il modo di attirare la quota di traffico che ora va su Google News e simili sulla loro piattaforma. Non sarà facile. Quindi qualcuo comincia a pensare che dovranno impedire a Google News di continuare a fare quello che fa anche usando gli uffici legali. Donde parlano di “pirateria”. Difficile essere d’accordo con questo termine per questo caso. Ma se anche lo si fosse, sarebbe una “pirateria” ben diversa da quella dei consumatori contro le major della musica. Casomai sarebbe analoga alla pirateria (senza virgolette) di coloro che copiano la musica e la rivendono facendo un vero e proprio commercio di materiale soggetto a copyright.

Detto questo, gli editori cercano un nuovo modello di business, come hanno fatto le major. Ma gli editori hanno cominciato dando le notizie gratis in cambio di pubblicità online. Alimentando così la crescita del web. E anche Mazza a quanto pare ha visto il pezzo pubblicato dal Sole attraverso il suo sito. Le major hanno invece tentato in ogni modo di frenare lo sviluppo dello scambio creativo di musica online e hanno cominciato a cercare nuovi modelli di business solo dopo essersi accorte che la difesa del passato con gli strumenti legali non funzionava e si trasformava in una paradossale guerra contro il loro stesso pubblico.

Siamo lontani da una soluzione, sia nel caso dei grandi editori tradizionali di giornali che nel caso delle major. Ma per tutte queste aziende si pone lo stesso problema: trasformarsi in qualcosa di diverso e di migliore per cogliere in modo costruttivo le opportunità offerte dalla nostra epoca. Imho.

Grazie a Enzo Mazza per gli spunti di riflessione che ha offerto.

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  • La differenza tra giornali e musica dipende solo dal fatto che la musica è già digitalizzata, i giornali no. Mettiamo che un abbonato a un giornale si scarichi il PDF offerto con l’abbonamento e o metta in download gratuito sul suo sito, o in p2p, dieci minuti dopo che è stato reso disponibile. Quale sarebbe la reazione dei giornali ? Una te la posso già dire, il Sole ha tolto il PDF del quotidiano dal sito per gli abbonati.

  • Bravo! sono d’accordo con te su tutta la linea!! tuttavia, credo che per le major la soluzione sia vicina quanto estrema: è il crack, il fallimento! le major sono un branco di brontosauri destinato all’estinzione, è questo ciò a cui si devono preparare in un ecosistema retto dal principio della libera circolazione – e libera ri-elaborazione – dei contenuti che ‘paradossalmente’ (per loro) può essere gestita in modo tale da non ledere i diritti dei legittimi ed originari autori di trarne profitto economico e morale.

  • “può essere gestita in modo tale da non ledere i diritti dei legittimi ed originari autori di trarne profitto economico e morale.”
    Quandolo vedrò ci crederò. E non perchè abbia la minima affezione per la major.

  • ad esempio, i radiohead hanno guadagnato con In Rainbows (distribuito online liberamente con invito all’obolo/offerta) di più rispetto al passato, quando erano sotto l’EMI, anche se in assoluto l’album ha incassato molto di meno (che paradosso: incasso di meno, guadagno di più!!); molti libri dei professori di Harvard o del Mit o di Standford (da Zittrain, a Benkler, a Lessig, a Von Hippel ecc ecc ..) sono pubblicati sotto Creative Commons e scaricabili in pdf, ma questo non evitato che i volumi cartacei siano in cima alle classifica vendite di Amazon… e cmq, come disse Tuco: “I tipi grossi come te mi piacciono, perchè quando cascano fanno tanto rumore”.

  • Lasciamo stare i professori di Harvard, etc. che li paga già l’università per cui lavorano e quindi anche se non vendono su Amazon mangiano benissimo lo stesso (anche perchè magari stanparsi un PDF di 400 pagine a colori non è che se lo possono permettere tutti, no, a meno che paghi qualcun’altro…). Parliamo di musica. E non parliamo dei Radiohead, che si sono fatti un nome proprio “sotto la EMI” ma dei Pincopallo, al loro primo lavoro. O anche dei Pallopinco, al loro terzo lavoro. Quando anche solo il 20 per cento degli artisti camperà grazie agl oboli (mi scappa da ridere, scusa…), ti darò ragione. Prima, nada.

  • Secondo me il discorso è inverso, non sono gli autori a guadagnare grazie alle major, è il contrario. Quando le major crolleranno faranno tanto di quel rumore.. anzi lo stanno già facendo.

  • Al di là della risposta perfetta di Luca De Biase, condivisibile in pieno, leggendo quello che scrive Enzo Mazza “i giornali hanno cavalcato per anni l’onda del tutto gratis, dell’anti copyright e della libera condivisione dell’informazione quando ciò riguardava altri settori dei media per trovarsi oggi a convicere gli stessi soggetti (consumatori) che una news forse si dovrebbe pagare 99 cents perchè non è di pubblico dominio” mi sorge la domanda: che ha che non va il prezzo di 0.99? abbasserebbe troppo il ROI delle major? diminuite i costi di struttura! le spese inutili… snellitevi. usate strumenti più efficaci. usate internet… smettete di foraggiare SanRemo. smettete di foraggiare network stupidi. producete musica di qualità (che non ha bisogno di pubblicità martellante). quello è il prezzo che adesso (nel XXI secolo) il mercato è disposto a pagare un brano. ascoltatelo e vedrete che la pirateria diventerà sempre più irrilevante.

  • I modelli di business possono esser anche infiniti, ma senza il prerequisito del brand forte e della pubblicità, è come sognare ad occhi aperti. Non conosco alcuna major che malgrado le minori vendite abbia bilanci sconquassati comunque. La digitalizzazione avrà eroso vendite tradizionali ma ha anche abbattuto i costi di produzione e distribuzione, ha spostato il modello di business negli eventi lives e nella rivendita spacchettata dei diritti. Non è caduto Time Worner con più di 100 mil di incauto acquisto per AOL e qualcuno ancora crede il crollo dei giganti. Aspettate anche. Poi se si vuole vedere iniziative di successo nel digitale ci sono, per i libri e per la musica. Sono scheggie e vanno considerate in quanto tali. Ma Mazza non era propenso ad una sorta di unbundling sulla gestione dei diritti, lasciando liberi gli autori di utilizzare il free promozionalmente? Ah per quello ora cerca contraddizioni.

  • non capisco cosa intende dire ezekiel, forse non era chiaro il concetto che ho espresso a Luca. I brani musicali sono già venduti online a 99 cents oppure sono addirittura offerti gratis in download in cambio di pubblictà (vedi downlovers o altri). Sul fronte digitale l’industria discografica ha ormai più o meno tutto il catalogo in download (le novità escono almeno dal 2006 già in digital download) e inoltre inizia a raccogliere ricavi anche da YouTube con il video sharing gratuito. La questione è che tale offerta deve confrontarsi con un ampia diffusione di contenuti musicali non autorizzati, cosa che i giornali peraltro non hanno. La mia riflessione era quindi basata sul fatto che con una più attenta comunicazione, che avesse preparato i consumatori della rete a pagare 99 cents o quanto si vuole, per la musica, si sarebbe creato quella awareness verso i contenuti che oggi andrebbe a favore anche delle strategie della stampa sul fronte online. Al contrario, la campagna “promozionale” del web come luogo del tutto free oggi renderà difficile anche vendere una news. Tutto qui

  • Caro signor Mazza, NON è stata una costruzione pubblicitaria o una enorme campagna promozionale a strutturare il web come luogo del ‘free’, è la pratica sociale di MILIONI di cittadini-utenti che scambiano e, in molti casi, ri-elaborano contenuti come i file mp3, a strutturare la Rete come piattaforma di comunicazione orizzontale, da pari a pari.
    ‘Free’ non sta per ‘Free Beer’, ‘Free’ sta per FREEDOM. Gli interessi di pochi contro i diritti di molti: qualcuno ne potrà soffrire, molti, la stragrande maggioranza, ne trarranno beneficio.

  • Sono d’accordo con te, purché i diritti non divengano pretese. Confine sottile ma distinguibile. Nella musica diciamocelo, non è la conoscenza che si scambia, ma il semplice intrattenimento. La proprietà intellettuale in deroga è sui brevetti nella biologia e negli standard dell’ICT (soprattuto quelli attinenti l’interoperatività) che “forse” apporterebbe esternalità positive. Con il rischio che poi nessuno vorrebbe più investirci.

  • Sì è chiaro: da un lato la musica è intrattenimento, dall’altro la scienza, la conoscenza, gli standard della comunicazione ecc.. sono pilastri della nostra società e garanzia di un futuro (migliore). A maggior ragione non possiamo permetterci che un intero ecosistema venga regolamentato sulla base delle pretese delle industrie dell’intrattenimento. Tra l’altro dovrebbe essere ormai chiaro come gli investimenti delle aziende in ricerca&sviluppo siano orientati a portare profitti sul breve/medio periodo, mentre le scoperte e le invenzioni decisive sono realizzate sul lungo periodo e possono essere condotte solo con fondi statali e da enti indipendenti come le università, la genesi di internet insegna.

  • Andrea, l’industria dell’intrattenimento nell’ambiente della macroconvergenza digitale e il più rumoroso in quanto parte del Communication ma le regole si dettano in sordina dall’Information e Technology. E il potere negoziale non esiste nella definizione degli standard e nelle strategie di gestione dei brevetti, se si esula dal diritto d’autore per le opere d’ingegno. Anche nell’incidenza economica è esigua la forza di contrattazione. Con Internet semmai, viene affievolito anche quello più precipuo dei content provider, definire bisogni di interesse pubblico (informazione), costruire desideri affinché tutti i carri, anche la più piccola rotellina si muova spedita. La ricerca di base e quella applicata non può che avere logiche temporali diverse. Per quello si chiede efficienza (anche se non efficacia) dalle università, lasciando a queste la divisione del lavoro di base e cedendone i progetti applicativi di prototipazione alle imprese.
    Questo però esula dal discorso, dipende dall’affidamento dei bandi, dai criteri di valutazione dei progetti di ricerca, dalla selezione dei ricercatori a prescindere dal merito, dalla gestione dei brevetti (in Europa viene incentivata la segretezza, in America la trasparenza competitiva), dalle risorse pubbliche (paradossalmente è meglio che ce ne sono poche, dato che il sistama giuridico di premialità è baronocentrico). I progetti di ricerca science based possono e di fatto sono per il loro connaturato rischio di successo, cortine di tornasole per eludere criteri di misurazione delle performance. Se non possono esser di prodotto per il discorso di cui sopra, a maggior motivo dovrebbero esser di processo, ovvero come si svolge la ricerca.
    Tutto vano quindi senza una efficiente cornice giuridica che ne disciplini i meccanismi d’incentivazione.
    Poi anche l’intrattenimento certo che ha le sue amenità. Quando propone arringhe che per una corsie preferenziali di contenuti a pagamento, sarebbe disposto a danneggiare qualsiasi altro bit free. Su questo però possiamo esser tranquilli che finché le telco non diventeranno neoeditori tutto scorrera come un treno.
    E’ un’ipotesi forte ma chi chiuderebbe il gas se dovrebbe esso stesso cucinare?
    Questo non assicura che facciano investimenti e manutenzione, e non lasciando il cerino in mano al nuovo entrante. Per ora nuovi entranti neanche all’orizzonte quindi. Certo se si avvierà un processo di scorporo della rete i giochi cambieranno, ma ora siamo alla fase di sottili minaccie, niente di più.

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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