Un magnifico pezzo di Hannah Goldfield sul New Yorker intorno al tema del fact checking mostra un lato diverso di questa pratica. Non tanto il dovere di controllare i fatti che si riportano in una storia, quanto la bellezza che può derivare dall’unire una narrazione affascinante con il compito – difficile, ma esaltante – di documentare le affermazioni che si fanno, verificare o confrontare quella documentazione e tener conto di tutti i fatti e non solo quelli che stanno bene insieme nella storia. (New Yorker)
La sofisticata argomentazione di Goldfield sembra derivare da una cultura marziana se confrontata con la realtà ben descritta da Luca Sofri in un suo recente pezzo. Luca mostra come spesso succeda che non si verifichi nulla, ma ci si basi spesso sulle reazioni emozionali immediate sul sentito dire e sull’appena letto, generando ondate di messaggi che non hanno molto a che fare con i fatti, ma che a loro volta esistono effettivamente e quindi diventano fatti – in quanto ondate di messaggi – e possono in questo modo essere riportate come tali.
La distanza tra la ricerca vera, che richiede una sensibilità sofisticata e attenta, ma anche un minimo di senso dello scopo per cui si fa informazione, e la veloce trasmissione di emozioni basate su impressioni, ci conduce a dover distinguere tra diverse dimensioni mediatiche. E a cercare un’innovazione che consenta di superare un rischio: che di fronte alla popolarità e al divertimento di scambiare velocemente impressioni superficiali, la dimensione nella quale prevale la ricerca e la verifica dei fatti appaia paradossalmente meno rilevante. Come? Rendere più popolare la dimensione dell’informazione ben verificata è difficile. Rendere più impopolare la dimensione del gossip è altrettanto difficile e forse ingiusto. Ma almeno si può concentrare l’attenzione su ogni operazione che possa ridare legittimità alla dimensione della ricerca dei fatti sulla base di un metodo condiviso o almeno in base all’ispirazione di principi comuni. È un vasto programma. E una strada lunga.
Ma non è una cosa che riguardi solo l’informazione. In un certo senso è simile a quello che avviene nella produzione quando l’artigianato di qualità si confronta con la produzione industriale a basso costo. Alla lunga, l’artigianato di qualità trova un suo posto nel sistema. Se si sa modernizzare e sincronizzare alle tensioni profonde del sistema e della società. Se conosce le tecnologie più avanzate. Se le sperimenta e si contamina con i saperi che emergono nella contemporaneità. E se mantiene l’orgoglio del suo specifico sapere di lunga durata. Anche l’informazione è in fondo artigianato: e anch’essa ha un sapere di lunga durata del quale si può essere orgogliosi. E che può trovare il suo posto nel sistema. Ispirando qualità.
Si raggiunge ripensando al sistema non in chiave di difesa della cultura dell’informazione di qualità, ma ripartendo dall’obiettivo vero: che è mettere quella cultura al servizio del sistema. Tecnologia ed economia non sono obiettivi, ma mezzi. L’obiettivo è il servizio del pubblico. E il pubblico, al quale non si può certo impedire di divertirsi con il gossip, riconoscerà la qualità.
update:
La maturazione di questi temi mi pare crescente (come i motivi per cui sono importanti). Per questo segnalo questo interessante pezzo di Hillary Rosner sulle tesi pregiudiziali che sembrano prevalere in una certa stampa femminile. Se lo script prende il sopravvento sullo scritto e il reality sulla realtà il giornalismo cambia natura e semplicemente cessa di essere sé stesso. Il pubblico deve saperlo.
Sta per uscire da Sellerio “Inchieste in Sicilia”. Lo leggerò tenendo a mente l’articolo del New Yorker che hai segnalato. Raccoglie articoli di Vincenzo Consolo – recentemente scomparso – prestato alla cronaca giudiziaria nel 1975.
Ne parlava Mario Pintagro qui: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2012/02/03/sellerio-pubblichera-un-libro-sugli-articoli.html