Home » media » Lione. Vivre par(mi) les écrans. La sfida del contesto. L’ecologia dei media è il messaggio
libri media New Crossroads Paper partecipazione Post ricerche

Lione. Vivre par(mi) les écrans. La sfida del contesto. L’ecologia dei media è il messaggio

Tra mercoledì e venerdì, all’università di Lione, la conferenza “Vivre par(mi) les écrans“. Qui c’è il mio contributo (ancora in lavorazione).


La sfida del contesto. L’ecologia dei media è il messaggio

Media ecology

La media ecology è programmaticamente meno concentrata sui messaggi o sulle singole tecnologie che sulle relazioni tra i contesti, i messaggeri e i loro mondi di senso, le tecnologie e le grandi narrative. 

La mediasfera è l’ambiente nel quale evolvono le culture degli umani. Le nicchie eco-culturali alle quali gli umani si adattano – o che gli umani cercano di modificare – sono costituite dalle connessioni tra tutti gli elementi che contribuiscono al ciclo dell’informazione. Naturalmente, il ruolo degli schermi, analizzato in questo convegno, è un pilastro della riflessione sulla mediasfera, per le sue connessioni con l’estetica e l’epistemologia e, anche, di conseguenza per le sue capacità esplicative sulla vita quotidiana e le sue tendenze, preoccupazioni, mutazioni.

Per portare un contributo alla discussione, in un contesto tanto consapevole come questo, ho pensato di strutturare l’intervento come un breve commento a tre idee raccolte nel corso della mia esperienza di ricerca, professionalmente giornalistica, ma forse più in generale storica: cioè condotta con un metodo non concentrato soltanto sulle novità – come è tipico del giornalismo – ma anche e soprattutto sul rapporto tra ciò che cambia e ciò che non cambia. 

Le tre idee sono affermazioni che ho registrato durante tre incontri con persone notevoli, persone che hanno avuto un impatto importante sulla nostra storia.

Ma non è un racconto autobiografico. Anche perché prima di tutto dovrei discutere l’argomento dell’autobiografia. Un argomento che oggi pone domande piuttosto importanti. E al quale in questa premessa è obbligatorio accennare.

Autobiografia

Può sembrare paradossale. Ma la domanda è: “Chi scrive la mia autobiografia?”

Innanzitutto, che cosa vuol dire scrivere? Nel contesto analogico, la scelta di scrivere era costosa – in termini di tempo, educazione e tecnologia – e dunque era riservata a ciò che si considerava a priori importante. 

Nel contesto digitale, la registrazione di qualsiasi cosa è facilissima, fisiologica, automatica. Si scrive tutto, in più versioni, su molti server. Una macchina che qualcuno considera una protesi del mio corpo, scrive che io sono qui, che ho visto un tramonto, che ho seguito una mappa, che ho comprato qualcosa, che mi sono fatto una domanda, che ho chiacchierato con qualcuno, che ho creato un pensiero, ogni momento del giorno e della notte: tutto è scritto, registrato, classificato automaticamente. Non scrive soltanto quello che nel mondo analogico, io avrei scritto di me stesso, studiando la mia esperienza per scegliere ciò che era importante scrivere. Scrive senza valutare l’importanza di ciò che scrive: registra tutto per il semplice scopo fisiologico di funzionare. Insomma, una protesi elettronica del mio corpo scrive la mia vita mentre io vivo: e dunque sono io o non sono io a scrivere la mia autobiografia?

La risposta è nel contesto storico.

Le molteplici identità assegnate a ogni persona a partire dalle sue relazioni con gli altri e col mondo, nel contesto digitale, molto facilmente trasformano l’autorappresentazione individiduale in una rappresentazione plurale (Homo pluralis, Codice 2016). Mauro Carbone ne parla nel suo Filosofia-schermi (Raffaello Cortina 2016). «Poiché l’individuazione incessantemente diviene l’altro lato di una delle molteplici relazioni che ci intessono, essa non può che perdere ogni implicito rinvio a un residuo individibile e deve perciò essere concepita piuttosto come dividuazione» (p. 155).

Il tessuto delle relazioni coinvolge ogni singolo neurone di ogni singolo cervello connesso, in qualche modo, ai neuroni degli altri, sulla scorta di un sistema di media, la cui complessità è comprensibile soltanto tentando di abbracciarne l’insieme. Per questo si parla di ecologia dei media.

In un approccio ecologico, non sono tanto importanti le singole cose ma le relazioni tra le cose. Nell’ecologia dei media non sono importanti tanto i singoli messaggi quanto le relazioni tra le persone e le loro menti, i messaggi e i loro contesti. Queste relazioni sono connessioni – nello stesso tempo – simbolico-culturali e tecnologiche.

E poiché nel mondo digitale le connessioni sono strutturate contemporaneamente su più livelli, come sono plurali le identità delle persone, vissute consapevolmente o meno, allora le principali narrative che si fondano sulla visione di un’umanità fatta di individui capaci di pensare con la propria testa, in grado di considerare i media come degli strumenti neutrali usati per perseguire i loro fini soggettivi, diventano obsolete. 

Come le autobiografie scritte con la sola penna dell’autore.

Fatte queste premesse, troppo lunghe, forse è meglio passare subito alle conclusioni. Non senza ricordare i tre fatti che immaginavo di voler presentare. Fatti che propongo come finestre su mondi complessi che proprio per questo possono svilupparsi in molte direzioni. Non sono fatti recenti. Ma sono fatti che hanno una durata.

Denaro e informazione

Per questo il primo incontro che vorrei ricordare è con Bill Gates. L’ho intervistato sette-otto volte. Era difficile sorprenderlo con una domanda. E di solito, sorpreso o no, rispondeva quello che voleva o che aveva in agenda di dire. Ma mi è capitato, una volta, di indurlo a un momento di riflessione, era il 1994.

In quel momento storico ci si domandava quali fossero i connotati della nuova economia che emergeva nella condizione post-industriale e nel pieno dello sviluppo dell’informatica. Gli ho chiesto: “Nella società dell’informazione, vale di più il denaro o l’informazione”? Ha risposto, dopo una (per me) lunsinghiera pausa riflessione: “Il denaro è una forma di informazione”. Ho subito inteso che Bill Gates aveva molte più “informazioni” di me. Ma non solo. 

Nei quasi vent’anni che sono trascorsi da quell’intervista, l’economia è cambiata molto. Se lo sviluppo industriale era fondato sulla linearità della catena di montaggio e il valore era riconducibile all’uso delle merci prodotte, con prezzi stabiliti intorno alla somma di costi e profitti, oggi il sistema si definisce intorno alla dimensione immateriale che assorbe la gran parte del valore: ricerca, design, logistica, informazione, significato, e così via. Dati, informazioni, conoscenze sono le materie fondamentali del valore. Il costo dei beni materiali è molto inferiore al prezzo che si paga per accedere alla conoscenza che contengono e che trasportano. I prodotti sono diventati di fatto i mezzi di comunicazione della conoscenza che li ha generati e che i consumatori riconoscono. I beni non sono più oggetti da produrre e poi pubblicizzare, ma sono oggetti comunicanti, inseriti profondamente nella mediasfera. Il denaro è informazione, il valore è conoscenza. Le dinamiche economiche convergono con le dinamiche culturali, cioè scientifiche, sociali, politiche, e così via. Con l’aumentare delle connessioni tra tutti questi elementi, aumenta la complessità del sistema. L’ecologia è un buon modo per nominarlo tutto insieme. È un buon modo per associare qualsiasi sviluppo in questo contesto con l’esigenza di comprenderne l’impatto a più livelli.

Applicando al tema degli schermi questa riflessione non possiamo che osservare come gli schermi siano strategici nel contesto descritto perché hanno una pluralità di funzioni: la barriera protettiva, il monitoraggio dei fenomeni, la connessione con mondi narrativi di ogni genere, l’estensione delle percezioni visive, e così via. Ma nello stesso tempo hanno una tale capacità attrattiva da concentrare su pochi gesti la molteplicità delle connessioni sensoriali possibili. Nell’ecologia, qualsiasi radicale omogeneizzazione tende a diventare fragilità. E dal punto di vista culturale, l’egemonia degli schermi è una potenziale fonte di fragilità. Soprattutto se l’omogeneità degli schermi si dimostra compatibile con la strategia finanziaria di concentrare tutto il potere economico nelle logiche di pochissime, grandissime aziende, divenute ormai centri di potere economico, politico, sociale. Paragonabili soltanto alle centrali di controllo politiche come l’NSA.

Se il denaro è informazione e l’informazione è concentrata in poche enormi strutture di potere, tutto ciò che facilita l’omogeneità di trattamento dell’informazione rende più semplice anche l’ulteriore concentrazione del potere. Bill Gates, in effetti, ha scritto in un suo libro che internet rende possibile un capitalismo senza attriti, un capitalismo che si poggia su un sistema di mercato vicino alla concorrenza perfetta. Questo pensiero è una assoluta semplificazione, che ha radici storiche nel pensiero economico molto importanti, ma che ha tutte le caratteristiche della “bufala ideologica”. Non è il caso di approfondire qui, ma va ricordato che la concorrenza perfetta era capace di raggiungere l’obiettivo di allocare le risorse nel miglior modo possibile soltanto se si verificavano alcune precondizioni: tutti gli individui in concorrenza sono razionali e orientati a massimizzare il proprio vantaggio, tutti gli individui in concorrenza sono perfettamente informati di tutto, nessun operatore economico è grande abbastanza da influenzare tutto il sistema. È evidente che nell’economia della conoscenza, queste premesse sono impensabili: gli individui non sono individui, la razionalità è una rarità nel quadro delle scelte degli umani, l’informazione non è equamente distribuita e la differenza di dimensione tra gli operatori economici non è mai stata così grande. 

Gli schermi sono parte di questo schema, ma anche premessa per il prossimo, eventuale cambiamento.

Che parte dalla comprensione del fatto che la vita davanti e dietro agli schermi, la vita dentro gli schermi, è comunque trasformata in informazione. 

Che cosa ne è venuto fuori finora di quella informazione è stato molto legato al progetto di società che era implicito nella filosofia economica di chi ha innovato nel binario della finanza neoliberista come criterio di successo e della fiducia nell’ineluttabilità del progresso tecnologico.

Ma trasformando tutto in informazione, la digitalizzazione ha messo le basi di una società nella quale tutto ciò che è umano (che cioè sa decodificare l’informazione) è mediato. E poiché l’umano ha tanta importanza sull’ecologia complessiva del pianeta, l’ecologia dei media diventa quasi l’ecologia tout court.

Che fare?

Rivoluzione ed evoluzione

Fare la rivoluzione?

Questo conduce al secondo secondo incontro che vorrei ricordare: con John Chambers. Forse pochi lo ricordano. Era il ceo della Cisco. Un’azienda che per un certo periodo ha costruito tutte le tecnologie fondamentali della rete internet e che è cresciuta fino a diventare per un certo periodo l’azienda con la capitalizzazione più grande del mondo. Una persona gentile, aperta all’ascolto, profondamente convinta che internet fosse la più grande occasione di miglioramento per l’umanità.

John Chambers, incontrato a una conferenza stampa a Parigi sul finire del 1998. Il grande storico ceo della Cisco che conquistava il mondo delle connessioni tra le persone parlava della grande rivoluzione internettiana e sosteneva: “Internet cambia tutto”. Quando fu il mio turno, gli chiesi se non considerava il fatto che per ogni rivoluzione c’è una controrivoluzione. Gli ricordai che eravamo a Parigi e che il quel luogo ne sapevano parecchio in proposito. Non solo per la sua naturale gentilezza, si mostrò colpito dalla domanda. Disse che era un’osservazione molto interessante, non ci aveva riflettuto, quando scese dal palco, mi promise di approfondire l’argomento. Come è ovvio, non ci fu occasione di mettere in pratica quel proposito. Ma nel pieno del conformismo generato dalla bolla delle dot-com che moltiplicava il valore finanziario di qualsiasi azienda avesse un minimo di internet nel suo modello di business, le considerazioni più importanti erano quelle che segnalavano qualche considerazione critica. Il ceo di Amazon, Jeff Bezos affermò che ai livelli di prezzo a cui erano arrivate le azioni della sua azienda non le avrebbe consigliate come investimento per le famiglie. E, con senso critico ancora più sviluppato, un paio d’anni dopo, il leader storico dell’Intel – il gigante dei microprocessori – commentò l’ennesima versione dell’affermazione “internet cambia tutto” dicendo: “Il cervello delle persone viaggia sempre alla stessa velocità”. 

In realtà, oggi lo sappiamo: niente cambia tutto! 

Una rivoluzione non libera gli umani per molto tempo. Le sue conseguenze li ingabbiano spesso più di quanto non fossero prima.

Internet cambia i flussi dell’informazione, l’archiviazione, le forme e gli incentivi della produzione di conoscenza, le relazioni tra clienti e fornitori, le relazioni tra aziende e collaboratori. Il che è molto. Ma non è tutto. Certo, cambia abbastanza da richiedere una riflessione collettiva che dura da trent’anni e che non sembra cessare. Ma si può cominciare a dire che per comprendere quello che internet cambia occorre rendersi conto di ciò che non cambia. L’argomento è interessante se ci si pone il problema della sostenibilità del sistema che emerge nell’epoca della conoscenza.

Come si diceva, nell’epoca della conoscenza, il valore e il potere scaturiscono dall’immateriale che funziona grazie ai mezzi che lo connettono. Le conseguenze non discendono dalle tecnologie ma dai modelli culturali con i quali queste vengono concepite, realizzate e adottate.

L’innovazione non avviene quando una novità viene proposta, ma quando viene adottata. In questo senso, l’innovazione è un incontro culturale.

Gli elementi strategici dell’ecologia dei media possono aiutarci a capire come evolve, come può essere definita una sostenibilità nell’epoca della conoscenza. Le strutture che “ordinano”, “valorizzano” e rendono “funzionale” la conoscenza “governando le relazioni dei suoi elementi” nello spazio e nel tempo, sono le piattaforme e le narrative: le piattaforme sono composte di un insieme di dati-algoritmi-interfacce, le narrative sono storie-frame-immagini. Piattaforme e narrative incentivano comportamenti e creano prospettive. Nessun elemento del sistema dei media è neutrale rispetto ai suoi risultati culturali.

La mia autobiografia – come quella di chiunque altro – si sviluppa in questo contesto, nella forma di una molteplicità di archivi di dati, sulla scorta di diversi algoritmi e modelli, che interagiscono con la mia vita, con le vite degli altri, con gli scopi delle aziende e delle organizzazioni politiche che raccolgono le informazioni su di me. Come tutte le autobiografie, analogiche o digitali che siano, la coerenza tra la realtà e la rappresentazione resta dubbia. Ma certamente questa, del mondo digitale, è particolarmente adatta a dar conto della mia identità plurale.

Tra le narrative che si confrontano, come si diceva, la narrativa basata su quella forma di concorrenza perfetta a cui gli ideologi del capitalismo neoliberista si ispiravano, nella quale esistevano soltanto individui razionali, perfettamente informati, che sceglievano di massimizzare il proprio vantaggio generando la migliore delle allocazioni delle risorse possibili, non ha più senso.

La prospettiva ecologica, alla fine dell’epoca neoliberista, in un periodo storico caratterizzato da crisi ricorrenti e sistemiche – finanziaria, pandemica, bellica – impone un approccio orientato a comprendere come emergono le nuove conoscenze, necessarie a ricostruire un ambiente adatto alla vita umana.

Ci si accorge alla fine che la costruzione della propria vita e la ricostruzione del contesto sono parte dello stesso impegno.

Questo non avviene attraverso una rivoluzione che coscientemente, seguendo un programma lineare, produce un rovesciamento dell’ancien régime e la sostituzione di una classe dirigente.

Questo avviene per un processo di mutazioni e adattamenti, che avvengono sulla scorta di relazioni che hanno la forma di conflitti o simbiosi. La modifica dei soggetti avviene nell’adattamento al contesto che a sua volta attraversa la trasformazione che coglie le opportunità aperte dall’accelerazione delle innovazioni tecno-scientifiche: l’evoluzione è l’esplorazione del possibile.

Le rivoluzioni sono molte. L’evoluzione è una sola. E ha una prospettiva molto più lunga.

In questo contesto si ridefiniscono le attività delle persone che vogliono contribuire all’evoluzione. E qualche generalizzazione è possibile. Un ecosistema è più sano se è dotato di biodiversità (in questo caso, infodiversità) e una specie non è preponderante ma in qualche modo le relazioni tra le specie sono tali da limitare il potere di tutte. Inoltre, l’evoluzione è generativa se le mutazioni e le relazioni tra specie conducono a forme di convivenza equilibrata, o addirittura simbiotica, mentre il parassitismo che uccide l’ospite non è particolarmente produttivo. In una media ecology generativa, sostenibile e sana, la diversità non è divisione e anzi è creatività purché ci sia un terreno comune sul quale costruire relazioni di collaborazione orientate non tanto al vantaggio individuale di breve termine ma al mantenimento della vitalità del sistema nella lunga durata.

È probabile che le interfacce con le quali si accede a internet siano destinate a cambiare ancora. Agli schermi si aggiungono interfacce che coinvolgono altri sensi, come l’udito e il tatto. È probabile che quello che per ora si chiama “metaverso” e che resta confinato in una sorta di iper-schermo non sia l’unica strada di svilupppo possibile. Ma non occorre speculare su questo, qui. Quello che conta è pensare a quali possono essere le dinamiche che daranno la prospettiva a questo sviluppo. 

Se sarà la narrativa della nuova tecnologia, che è sempre migliore della precedente e che quindi genererà le migliori conseguenze possibili, il potere finanziario di chi intende imporre un modello di interazione sarà importante per innescare le forze del cambiamento. Se invece sarà la narrativa ecologica, che cerca di moltiplicare le opportunità di connessione e di percezione, in un quadro di consapevolezze comuni, probabilmente fiorità una varietà di soluzioni, ma interpretando le dinamiche più importanti del cambiamento che si confrontano con l’esigenza di affrontare i temi prioritari per l’umanità, l’emergenza climatica e la disuguaglianza sociale. In questo senso, l’innovazione autoreferenziale non è più attuale: l’innovazione che interpreta una direzione è più adatta alle sfide della contemporaneità.

Il che impone una ampiezza di vedute storiche, che non si può fermare all’analisi delle tecnologie.

Le rivoluzioni sono tante. L’evoluzione è una sola.

Struttura e racconto

Questo conduce al terzo incontro che vorrei ricordare, quello per me originario. Era il 1979. Per la mia tesi di laurea avevo un mentore meraviglioso. Era Fernand Braudel, lo storico francese che allora guidava la scuola delle Annales. Gli ho fatto tante domande, nel periodo durante il quale è stato la mia guida. Una volta gli ho chiesto se nella sua prospettiva storica ci fosse posto per l’importanza delle singole persone oppure contassero soprattutto le strutture di lunga durata. E lui disse: “Temo che contino molto le strutture”. Per me che cercavo la mia strada, con numerose possibilità apparentemente ancora aperte davanti a me, era un insegnamento duro. E un’altra volta gli domandai quale fosse la sua opinione politica. Non ne parlava spesso. Disse con gli occhi sorridenti di essere un “anarchico gaullista”. Ci ho pensato chissà quante volte. Attraversando le tante vicende di una vita qualsiasi. E alla fine questa è la mia proposta di interpretazione: se le strutture contano tanto di più delle scelte individuali, l’anarchia è il sistema più coerente, poiché il vero governo risiede nel complesso sistema delle grandi scelte di civiltà; ma gli umani non sono formiche e possono vivere solo nelle atmosfere culturali generata dalle grandi narrazioni, come quella incarnata dal Generale Charles De Gaulle. Il ruolo delle persone è raccontare, o meglio contribuire alla creazione di narrazioni.

Il governo delle vicende che hanno lunga durata e dunque grande importanza è fondamentalmente indipendente dagli avvenimenti generati dagli umani. Ma questo non significa che gli umani non abbiano un potere. Il potere di esplorare le possibilità esistenti e di generare nuove possibilità. Il racconto dell’esperienza e la creazione di racconti nuovi è l’attività che sembra più adatta a queste indagini sul possibile e sul suo superamento.

La libertà di esplorare il possibile è la premessa del suo superamento. I racconti che la mediasfera consente di sviluppare sono essenziali al processo di adattamento che serve a vivere nella nicchia eco-culturale esistente. Ma possono aiutare a modificarla, quella nicchia, quando creano consapevolezza profonda del contesto, delle strutture, dell’ambiente, dei media, delle forme dell’organizzazione della conoscenza, nello spazio e nel tempo.

Il compito della persona è dunque quello di raccontare. La vita stessa della persone è il suo racconto. La biografia e l’autobiografia convergono.

Con Antoine Compagnon ci si domandava se sia possibile il racconto autobiografico. Oggi dobbiamo ammettere che questo è inevitabile. È realizzato fisiologicamente dalle macchine con un intervento più o meno consapevole delle persone.

La vita nel contesto digitale, davanti e dietro gli schermi, talvolta dentro gli schermi, è fisiologicamente il suo racconto. È l’informazione che la racconta. Ma l’informazione può essere semplicemente un insieme di dati, oppure un sistema di dati-modelli-algoritmi che magari simulano i gemelli digitali delle persone o delle situazioni in cui si trovano le persone. Oppure può essere conoscenza. O addirittura saggezza.

La libertà e la bellezza di quella vita che viene raccontata si leggono nell’equilibrio della pluralità di dimensioni delle quali la vita di ciascuno è composta.

In un’epoca in cui le grandi sfide sono tutte fondamentalmente ecologiche – clima, pandemia, globalizzazione, migrazioni, povertà e inclusione sociale – l’ambiente e l’insieme dei gesti individuali coevolvono. La pluralità delle durate del tempo sociale, la pluralità delle dimensioni dell’ambiente digitale, la pluralità delle identità e delle narrative che ciascuno vive, sono il contesto di questa coevoluzione. 

Le mutazioni e le innovazioni intenzionali sono i nostri gesti di libertà. La parte del racconto della nostra vita che noi scriviamo intenzionalmente è il nostro contributo. 

Se ci facciamo scrivere la nostra vita completamente dal sistema siamo perduti. Se pensiamo di scriverla completamente da soli siamo perduti. Se viviamo pienamente la nostra pluralità ci possiamo trovare. 

La sfida del contesto si può vincere.


Streaming:

mercredi 27 avril 2022 après-midi, https://youtu.be/MgxvQ-82gb8
jeudi 28 avril 2022 matin, https://youtu.be/md76BX6ESHo

jeudi 28 avril 2022 après-midi, https://youtu.be/ZKPHUx7gkhU

vendredi 29 avril 2022 matin, https://youtu.be/6JO2jXbQFnU

foto: tadzio marion roche et des tanneries cac amilly

Commenta

Clicca qui per inserire un commento

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

Video

Post più letti

Post più condivisi