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Otto milioni di persone non sanno ancora che cosa succederà a settembre

Un piano di 50 miliardi di spesa pubblica non si era visto mai. Del resto, non si era mai vista neppure una recessione volontaria delle proporzioni di quella attuale. Il governo entra in gioco per rilanciare l’economia dopo aver deciso di chiuderla per salvaguardare una popolazione che di fronte a un’epidemia non poteva contare sul sistema sanitario – nonostante l’impegno dei medici – perché il bilancio pubblico aveva chiesto più efficienza che resilienza. Il problema è che quei 50 miliardi di spesa pubblica, un ammontare gigantesco rispetto alla scarsità dei decenni scorsi, non sono allocati in modo comprensibile: sembrano andare un po’ dappertutto senza una vera strategia. Forse qualche logica c’è, ma non si percepisce perché la sintesi si scioglie nell’immane quantità di dettagli. Dovrebbe essere la volta che il paese investe sul futuro, sull’innovazione orientata a definire una prospettiva di progresso umano e organizzativo. Invece non si capisce niente.

Il buco nero delle decisioni di spesa pubblica sembra la scuola. Se in generale si capisce poco, la scuola è ancora meno chiara. Otto milioni di persone non comprendono esattamente che cosa sarà di loro. Manifestazioni in tutta Italia lo segnalano.
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Pungolo

In generale la sostituzione delle lezioni con attività online è stata una sperimentazione importante. Ma non può bastare sperimentare. I problemi emersi sono importanti quanto le scoperte. Tecnologie presenti da decenni sono state utilizzate massicciamente durante la clausura per fare cose che in generale si svolgevano dal vivo. Costi importanti sono stati risparmiati e emissioni di CO2 si sono ridotte. Ma la qualità delle relazioni online non è priva di temi controversi. Sembra di capire che, in sintesi, le piattaforme per le relazioni in video attuali sono adatte più alle attività di routine che a quelle creative. Se la scuola è considerata di routine, però, probabilmente manca i suoi obiettivi. E se è un’attività creativa ha bisogno di incontri fisici. Ma questo è un argomento da approfondire. E sarebbe fantastico sapere che cosa ne pensano i commentatori.

2 Commenti

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  • Guarda, mi offri lo spunto per una riflessione mia che da diversi giorni mi bolle in testa.
    Premetto che io ho un figlio che quest’anno ha fatto (si fa per dire) la prima elementare, quindi le mie riflessioni sono per forza di cose molto legate alla nostra esperienza personale.
    Scatta l’emergenza, da un giorno all’altro. La risposta della scuola, dopo qualche giorno di sconcerto, è la famosa didattica a distanza. Cosa vuol dire, nella pratica? La prima settimana passa attraverso la comunicazione di compiti su un gruppo WhatsApp di classe. Poi i docenti si confrontano tra loro e la scuola decide di adottare un sistema di DAD univoco, chiamato WeSchool. Hanno evidentemente vagliato sia Google Classroom che altri sistemi, per concludere che – per l’età dei bambini e la maneggevolezza dello strumento – WeSchool era la soluzione più adatta. WeSchool si configura come una specie di Gruppo Facebook di classe, con un wall dove tutti possono postare, una Board dove gli insegnanti possono inserire lezioni, video, dispense, esercizi in forma di gioco (generalmente presi da Scratch), un ambiente di Test dove inserire delle verifiche con valutazione integrata e una Live Classroom basata su Jitsi. Ben presto l’ambiente viene “rodato”, non si sa per quanto tempo dovremo utilizzarlo (al momento sono 11 settimane), ma le cose procedono bene, soprattutto a confronto con altre scuole in cui – veniamo a sapere – gli insegnanti si rifiutano di ricorrere alla DAD, probabilmente più che altro per scarsa competenza loro. A conti fatti, e basandomi su una risposta appunto emergenziale, io da genitore sono molto soddisfatto di come è stata affrontata la DAD dai maestri di mio figlio, pur vedendo notevoli criticità nello strumento usato. Tutti i maestri (di italiano, matematica, inglese e perfino quella di religione) si sono formati sullo strumento, hanno ne ganno testato potenzialità e limiti, hanno creato esercizi, cercato video e giochi accattivanti su YouTube e Scratch, anche se prevalentemente hanno continuato a distribuire le maledette “Schede”, in sostanza dei documenti in PDF da stampare e compilare per esercizio. Ecco il primo limite: la DAD presuppone che ogni famiglia abbia in casa una stampante funzionante e TANTA carta. Per non parlare poi dell’elefante nella stanza: la DAD ha messo in luce più di qualsiasi rapporto o studio accademico il digital divide italiano. Il 30% degli allievi non ha un PC o un tablet per collegarsi alle lezioni live (che da noi sono stabilite in 3 ore a settimana, una di inglese, una di italiano, una di matematica). Se non ce l’ha, può collegarsi dallo smartphone di un genitore, ma non è detto che la fruibilità sia la stessa. Anche qui, la nostra scuola è venuta molto velocemente in aiuto degli studenti in situazioni di disagio, fornendo tablet a chi ne aveva bisogno (fun story: hanno dato tablet con account da admin, per cui i bambini che li usano possono a loro piacimento zittire o espellere dalle lezioni on line tutti gli altri bambini, haha). In definitiva: la DAD è stata un’esperienza per certi versi positiva, se non altro nella misura in cui ha forzato la mano a docenti e allievi a familiarizzare con una tecnologia utile e a costruirsi un’alfabetizzazione digitale (di ritorno per i docenti, fresca per i bambini) che magari non avrebbero avuto occasione di avere. Per molti versi è stata negativa, per la questione che oggi, dopo tre mesi di lockdown delle scuole, è evidente a tutti. La scuola non è solo “istruzione”, è soprattutto “educazione” e “relazione”. I bambini di prima elementare, a differenza degli studenti delle medie e delle superiori, soffrono la videolezione. Tentano in ogni modo di interagire one to one, sono insofferenti, hanno uno span di attenzione molto basso, trovano difficile rispettare le regole che pure hanno imparato dei microfoni spenti, dell’alzata di mano, etc. Interrompono la lezione per raccontare una storia, dicono ai maestri che gli vogliono bene, a volte piangono o si scollegano: normale. Inutile negare che il Covid ha avuto un effetto pesantissimo su di loro, anche se non lo danno a vedere. Per questo le proteste di questo weekend sono state particolarmente sentite soprattutto da chi come me ha i bambini in prima elementare (o seconda, o terza). La scuola DEVE riaprire in presenza. La scuola avrebbe dovuto riaprire in presenza già da una settimana, almeno per far finire l’anno con una parvenza di normalità. In presenza, ma in sicurezza. All’aperto, quando la stagione lo consente. A gruppi, a turni, distanziati, con mascherine, insegnando ai bambini le regole della sanificazione, spedendoli a lavarsi le mani almeno 4 volte al giorno, invitandoli a pulire da soli i loro banchi, gestendo diversamente il sistema di ristorazione. Se la riapertura per la fine dell’anno – lo abbiamo capito – è un’utopia, adesso che ci sono 4 mesi per studiare un protocollo di riapertura a settembre, la sensazione è quella che a Viale Trastevere pensino molto semplicemente di rivolgersi alla DAD, vedendo solo il lato positivo dei successi ottenuti tra marzo e giugno. Ma questa cosa non può e non deve passare. Occorre una profonda ristrutturazione organizzativa, ma vorrei dire prima ancora proprio “brick & mortar” della scuola italiana. Si può fare. Se si ha la volontà di farlo. E credo purtroppo che questa volontà non ci sia.

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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