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Ironia sovrana. Le élite vecchie e nuove. Chiose a Baricco

Alle ricorrenti crisi delle élite sono dedicate intere biblioteche. In generale, i problemi connessi sono legati alla forma dei moti popolari che le mettono in difficoltà, alle loro cause di fondo e immediate, alle loro conseguenze. Ma c’è una costante: la crisi delle élite significa anche la crisi del discernimento tradizionale intorno a ciò che è giusto, vero e bello. Ed è una forma del rinnovamento storico, necessario, salutare. Spesso le dinamiche si assomigliano. Gerarchie sociali troppo bloccate, con ascensori sociali troppo fermi, finiscono per collassare di fronte a difficoltà economiche significative quando le élite non riescono a dare alla popolazione soluzioni soddisfacenti. E allora ci sono malumori, rivolte, o vere e proprie rivoluzioni. Per via democratica o attraverso moti violenti.

Quello che avviene nel mondo occidentale attuale è una crisi dell’élite? Quanto è profonda? Quanto è importante il movimento popolare che la sta interpretando? È immersa in una dinamica prettamente locale o è generata da fenomeni internazionali, dal confronto tra potenze globali? Che cosa c’entra la forma assunta dai media in questo periodo?

Crisi di lunga durata o di breve periodo?

La rivoluzione francese è un esempio di crisi dell’élite che ha una dinamica di lunga durata. Tutto il dibattito sull’aristocrazia nel Settecento è segnato dalla ricerca di una legittimità per questo ceto che si fonda su due filoni di pensiero. Un primo pensiero si riallaccia senza troppa enfasi a una sorta di mitologia di origine feudale, nella quale l’aristocrazia ha il suo posto nell’architettura metafisica che unisce in una sola piramide tutte le gerarchie umane e celesti: si tratta di un pensiero che nel XVIII secolo appare piuttosto stantio, dopo che la rivoluzione copernicana ha eliminato i cieli concentrici che circondavano la Terra, dopo che la stampa a caratteri mobili ha abbattuto i costi della pubblicazione, dopo un secolo di crisi della coscienza europea e con l’emergere di una sensibilità illuminista che conquista anche molti aristocratici. Quel pensiero è in realtà una difesa d’ufficio della “sacralità” dell’ordine sociale che si trasforma nella più retriva forma di conservazione: vuole dire che non c’è alternativa. Nello stesso secolo XVIII però un altro pensiero è usato per legittimare l’aristocrazia: si collega alla sua funzione politica, militare, culturale; è fondato sulla consapevolezza che gli aristocratici sono educati meglio degli altri ceti; e ha una ragione sociale importante nel fatto che gli aristocratici sono predisposti a mettersi al servizio della società. Non tutta l’aristocrazia ci crede fino in fondo: a Venezia una parte della gioventù abbandona del tutto la coscienza di sé aristocratica. In ogni caso, dall’esterno, quell’élite è considerata in base a chiavi di lettura alternative: da una parte, è considerata come l’insieme delle persone che sanno come guidare al meglio una società, dall’altra parte è vista come il ceto privilegiato che si trova in vantaggio nella società per diritto ereditario e senza alcun merito. In alcuni paesi europei, l’aristocrazia ha fatto in tempo a rinnovarsi per vivere la modernizzazione in modo relativamente armonico, in altri paesi è stata troppo incapace di adeguarsi.

La rivoluzione francese è stata probabilmente la risposta a un problema di questo tipo. Ha tagliato la testa degli aristocratici che con ogni evidenza non si erano adattati alla modernizzazione abbastanza in fretta. Non è stata solo una rivolta di breve durata: è stata una rivoluzione perché aveva dietro le spalle una lunga elaborazione intellettuale, una progettualità costituzionale fortissima, un ceto borghese emergente che si poteva candidare alla guida della società. Una nuova élite era pronta, o quasi, a sostituire la precedente. Un nuovo criterio del giusto, del vero e del bello era pronto a funzionare.

Ebbene: le crisi politiche attuali, gilet gialli compresi, sono rivolte o rivoluzioni?

Le primavere arabe del 2011 sono state rivolte senza una vera e propria élite di ricambio, in Egitto e altrove. In Tunisia forse, hanno avuto una dinamica più profonda. I sommovimenti dei paesi europei sono di tipo profondo o temporaneo?

Alessandro Baricco ha raccontato la crisi dell’élite attuale in un articolo pubblicato sulla Repubblica dell’11 gennaio 2019. La sua sensibilità letteraria offre un percorso di analisi capace di far vedere il movimento in corso con una precisione millimetrica nei capisaldi umani e sentimentali vissuti da chi attraversa la contemporaneità. Il suo racconto riguarda un’élite borghese che aveva creato un pensiero unico economico e politico e che dal 2008 appariva palesemente incapace di affrontare le difficoltà. Un’élite bloccata, in una società con l’ascensore sociale fermo, con una concentrazione della ricchezza sempre più marcata, con risposte sempre più inadeguate: che ha finito per trovare sulla sua strada un insieme di nuovi politici capaci di intercettare il malumore, trasformarlo in rivolta e qualche volta in un rovesciamento del regime per via democratica. A questi nuovi politici hanno fornito armi fondamentali i media digitali progettati almeno originariamente da menti certamente compatibili con la critica delle élite tradizionali.

Il racconto esistenziale del passaggio storico attuale, nelle parole di Baricco, è appassionante: come in un romanzo storico alla Verga, sembra descritto dal punto di vista del ceto perdente. Qualunque sia il giudizio sul valore delle decisioni del nuovo ceto politico, il fenomeno emergente è che il suo successo deriva dall’aver dato un’alternativa a chi non ne vedeva, perché: chi non era élite voleva essenzialmente la fine dell’élite precedente. Erano i no al passato a coagulare il consenso.

Ma c’è anche un progetto? Il cambiamento che si è verificato per via non violenta e democratica, è una rivolta o una rivoluzione? È di breve durata o lunga prospettiva? Nel caso della rivoluzione francese c’era un piano culturale forte, un secolo di crisi della coscienza europea e di illuminismo. Nel caso della rivoluzione russa c’era almeno mezzo secolo di elaborazione marxista-leninista. Molti altri moti sono stati meno strutturati. Per valutare la durata dei cambiamenti introdotti dalle novità politiche che recentemente sono occorse in molti paesi democratici occorrerebbe valutare in profondità l’approccio intellettuale dei nuovi politici, la loro progettualità, la qualità delle nuove élite che eventualmente emergono dalla loro azione.

Le analisi forti dei nuovi gruppi al potere, “democrazia diretta e moralità”, oppure “facciamo i nostri interessi”, sono meno elaborate di quanto servirebbe per comprendere se sono dotate di una strategia di fondo. Di certo, avranno più o meno durata nel caso che rappresentino nuove élite o nel caso che rappresentino solo lo scontento nei confronti dell’élite precedente.

Perché sappiamo che di fronte a grandi cambiamenti, in mancanza di analisi rivoluzionarie forti, riemergono i ceti sociali che possono cavalcare l’onda perché sanno che cosa fare e come farlo. Un esempio è vivissimo. Rodrigo Vergara, intervistato nel film di Nanni Moretti sul golpe a Santiago del Cile, l’11 settembre del 1973, dice che da quell’esperienza si è reso conto che la democrazia consente al popolo di fare le sue scelte, ma solo se l’élite è d’accordo. Altrimenti non funziona. O smette presto di funzionare.

E allora quello che sta succedendo è una rivolta o una rivoluzione? Ha dietro un pensiero in grado di discernere in modo strategico il percorso da compiere oppure è soltanto un colpo duro all’élite in attesa che in mancanza di meglio torni un sistema di potere meno utopistico e innovativo di quello che i suoi fautori avevano sperato? Quello slogan di Margaret Thatcher ripetuto da Baricco, “non c’è alternativa”, è il più conservatore degli slogan possibili. L’innovazione discende dalla consapevolezza che ci sono sempre alternative anche se non sembra, dalla convinzione che le alternative vanno cercate, abilitate, liberate. Che i limiti del possibile sono superabili. Vediamo vere alternative oggi grazie al nuovo ceto politico o il pensiero unico continua a prevalere?

Ebbene per vedere le alternative che hanno aperto i nuovi politici si possono considerare i loro programmi politici a fronte delle decisioni che riescono davvero a prendere. Non è la prima volta che la democrazia non riesce a implementare i cambiamenti ritenuti necessari dagli elettori. Baricco mostra nel suo articolo un’inquietante serie di decisioni democratiche che in Europa sono state disattese dalla volontà delle élite senza alternativa. Se le decisioni reali dei governi post-elitari finiscono con l’adeguarsi ai binari imposti dalle regole politiche elitarie, significa che l’elaborazione intellettuale che li ha portati al potere era meno forte di quella che serve per una rivoluzione.

Ma il tema di fondo è quindi meno politico e più culturale. Abbattuta – anche con ottime ragioni – un’élite, è restato un buco in termini di discernimento, di pensiero di qualità, di approccio umile alla conoscenza, tipico di chi ha veramente un atteggiamento aperto e non elitario. Una funzione che le vecchie élite non svolgevano più bene, vista la profondità irrisolta della crisi attuale. Ma una funzione che serve ma non è svolta da alcuno in questa fase. Il che è coerente con il percorso storico che ha portato il nuovo ceto dirigente al potere. Le armi mediatiche che gli strumenti digitali hanno messo nelle mani della frangia della popolazione che odiava tanto le vecchie élite da essere disposta a tutto pur di abbatterle, chiaramente, sono fatte solo per conquistare attenzione ma non per generare discernimento di qualità. Se il progetto di società che emerge dalla trasformazione in atto non è espresso meglio, rischia di portare il cambiamento su un binario morto in attesa del ritorno in auge del vecchio sistema di potere o di qualche altro risultato imprevisto.

Scenari?

Scenari se ne possono proporre diversi.

In primo luogo si può dare il caso che il nuovo ceto politico riesca ad assorbire un po’ della vecchia élite. In seconda luogo si può pensare che la novità abbia riguardato un ricambio di persone al potere, che però non sono in grado di cambiare le dinamiche economiche di fondo: se il mega capitalismo ha già conquistato i media digitali che erano nati per definire una redistribuzione delle opportunità economiche e culturali e che sono finiti nella logica della finanza e del consumismo pubblicitario, allora può facilmente prendere possesso anche del ceto politico che attualmente ha abbattuto le vecchie élite ma non le ha sostituite nelle funzioni fondamentali del discernimento di qualità. Oppure si può scoprire che tutto è stato un insieme di operazioni di imperialismo mediatico da parte di potenze straniere più o meno aggressive.

La domanda alla fine è: il nuovo ceto dirigente è capace di essere élite, cioè di discernere ciò che è bello, vero e giusto? Oppure si affida ad altri per farlo? Nel primo caso deve spiegarsi meglio. Nel secondo caso rischia di aprire la strada alla restaurazione a favore di altre élite. Potrebbero essere vecchie conoscenze occidentali, nuove e ambiziose entità russe o cinesi, forme rinnovate di nord-europeismo. Sarebbe ironico che i sovranisti finissero col servire a una nuova fase della colonizzazione.

La verifica su questa eventualità arriverà: è soltanto questione di tempo.

4 Commenti

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  • Solo una puntalizzazione: quella che è in crisi è la narrazione del XX secolo, che è la tecnologizzazione dell’immaginario originatasi con la rivoluzione francese. Questa tecnologizzazione è stata molto americana. Detto questo la democrazia ha bisogno di elites e l’aristocrazia non è mai sparita. L’Europa è il continente con il più altro numero di monarchie regnanti. La rivoluzione francese ha solo cambiato i termini: le aziende familiari italiane sono di fatto i possedimenti di una nuova neo-aristicrazia (che di fatto si è aggiunta alla precedente): Techint Rocca. FCA Agnelli-Elkan, Sella- Sella…la dinamica è sempre quella del potere agito su una specie che ha un’evoluzione esosomatica. Chi produce e manipola la narrazione ha il potere. Clero, Aristocrazia, Neo-Aristocrazia. Punto.

  • Solo una puntualizzazione: quella che è in crisi è la narrazione del XX secolo, che è la tecnologizzazione dell’immaginario originatasi con la rivoluzione francese. Questa tecnologizzazione è stata molto americana. Detto questo la democrazia ha bisogno di elites e l’aristocrazia non è mai sparita. L’Europa è il continente con il più altro numero di monarchie regnanti. La rivoluzione francese ha solo cambiato i termini: le aziende familiari italiane sono di fatto i possedimenti di una nuova neo-aristicrazia (che di fatto si è aggiunta alla precedente): Techint Rocca. FCA Agnelli-Elkan, Sella- Sella…la dinamica è sempre quella del potere agito su una specie che ha un’evoluzione esosomatica. Chi produce e manipola la narrazione ha il potere. Clero, Aristocrazia, Neo-Aristocrazia. Punto.

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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