Questa idea secondo la quale le macchine stanno per sostituire molti lavori umani va chiarita. Anche nelle pubblicazioni più pessimiste da questo punto di vista (Frey-Osborne), si dà un orizzonte di dieci-venti anni per osservare una distruzione massiccia di posti di lavoro. I meno radicali, come l’Ocse, vedono una condizione più complessa: nel medio-lungo termine ci sarà effettivamente circa un 10% di posti di lavoro che rischiano seriamente di essere distrutti dalle macchine (intelligenza artificiale e robot), mentre ci potrebbe essere un 30% di lavori che cambiano ma non spariscono (Paolo Falco, vedi anche ppt). Intanto, la scarsa crescita della produttività, negli Usa, fa pensare che non ci sia un’imminente accelerazione della sostituzione di lavoro poco produttivo con lavoro molto produttivo (dice Cepr).
Il fatto è che le immagini dei fenomeni complessi sintetizzate nei titoli di paper o di giornali tendono a banalizzare, più che a semplificare. Un buon approccio a questo problema è quello che si basa sulla braudeliana idea della molteplicità delle durate dei tempi sociali: ci sono fatti immediati, congiunture e mode, fenomeni di lunga durata, diceva Fernand Braudel. Nel nostro caso, ci sono cose che cambiano velocemente, una alla volta; ci sono cose che vanno ciclicamente; ci sono cose che cambiano poco. In questo modo la complessità è meglio descritta. Molti posti di lavoro a rischio resistono grazie al fatto che si poggiano su strutture di lunga durata: per esempio, un grandissimo numero di camion con guidatore non può essere sostituito in un colpo solo da un grandissimo numero di camion senza guidatore ed è la vastità del parco macchine a contribuire alla lunghezza del tempo che ci vuole per cambiarle tutte.
Il punto è capire casomai quali relazioni ci sono tra le tre durate.
Si può ipotizzare che molti piccoli fatterelli di oggi possano generare una sorta di erosione di grandi abitudini consolidate: un robot in più in azienda non cambia la produttività di molto; ma un po’ alla volta può cambiare la prospettiva di investimento dell’azienda e indirizzarla verso il contenimento del costo del lavoro attraverso un maggiore ricorso all’acquisto di beni ammortizzabili velocemente, ma destinati a produrre valore per un tempo relativamente lungo. Se questo si inserisce in una fase del ciclo nella quale c’è espulsione di manodopera o chiusura di aziende, a fronte di un’accelerata innovazione tecnologica, si può avere l’impressione di un rapporto causa-effetto tra macchine e disoccupazione. Ma è un’attualizzazione di un fenomeno che ha una dinamica più lenta. Questo non tranquillizza, perché si può immaginare che effettivamente dopo una ventina d’anni ci sia una grande sostituzione di lavoratori con macchine, ma i tempi che ci sono in gioco possono consentire alla società di trovare idee per rispondere alla perdita di posti di lavoro.
Il tema è soprattutto questo. Anche nel Dopoguerra, quando il 60% dei lavoratori italiani erano occupati in agricoltura, una buona metà dei posti era a rischio. In una ventina d’anni gli agricoltori si erano ridotti drasticamente, ma le persone avevano trovato posto nell’industria: la differenza era che i nuovi posti erano immediatamente visibili, mentre oggi non li vediamo facilmente.
L’immaginazione è parte della soluzione. La forza di progettare nell’astrazione dell’economia della conoscenza, molto meno visibile dell’economia industriale, va coltivata: con educazione, istruzione, investimenti in cultura. I lavori creativi non sono facili da pianificare, si possono soprattutto favorire alimentando l’intelligenza, l’informazione, la visione.
Si assiste a un prolungamento della fase negativa del ciclo legata non soltanto ai dati economici attuali ma anche alle aspettative sui dati economici futuri che sono peggiorate dalla mancanza di idee sui motivi tecnici che potrebbero generare nuovi posti di lavoro e su quali forme di istruzione dovrebbero consentirci di preparare abbastanza persone per quello che servirà in futuro.
Ma sappiamo che i robot-piattaforma genereranno più valore dei robot dedicati a una sola funzione. Allo stesso modo sappiamo che l’istruzione che apre la mente e genera immaginazione, oltre che flessibilità, genererà più valore dell’addestramento a funzioni legate a soluzioni attuali.
Vedi anche:
Lavoro, questione numero uno. E la priorità è l’educazione
Credo che si tratti di una questione delicata, e che non dipenda esclusivamente dall’effettivo progresso tecnologico. Dipende anche, e soprattutto, dalla volontà socio-politica di dare un’accelerazione, e una direzione. Di sceglierla, la direzione.