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Proporzionali dentro

L’equilibrio dei poteri teorizzato da Montesquieu nel Settecento e divenuto il fondamento delle costituzioni dei paesi occidentali che hanno seguito le orme degli Stati Uniti non è mai arrivato appieno in Italia. Un po’ sì. Ma non fino in fondo. Perché l’Italia non è forte per le sue istituzioni, ma per la sua società. Mi spiego.

L’equilibrio dei poteri americano è istituzionale. I poteri amministrativo, legislativo e giudiziario sono separati e si fronteggiano impedendo che uno di essi prenda il sopravvento, in modo tale che la Repubblica (il bene di tutti) non possa diventare ostaggio di pochi. Questo funziona se le istituzioni e lo stato di diritto sono più importanti di qualunque gruppo di potere. Ci sono molte ragioni per la crisi politica degli Stati Uniti: la perdita di valore del lavoro della classe media, la trasformazione tecnologica e geopolitica del mondo, la finanziarizzazione dell’economia che diventa il governo delle lobby che pagano di più per ottenere favori politici. La società frammentata che ne emerge non crede più negli stessi valori, non ha più un modo unitario di conoscere la realtà, non vede il mondo nella stessa maniera: ha perso fiducia e non comprende come stanno le cose. I sistemi di controllo fondati sul giornalismo e sull’etica della politica sono stati travolti. Ma l’equilibrio dei poteri regge grazie alla forza delle istituzioni, anche se non offre risposte sufficienti.

In Italia l’equilibrio dei poteri non è istituzionale: è sociale. Le istituzioni repubblicane sono spesso apparse piuttosto come generatori di rituali vecchiotti o come luoghi del folklore politico. La realtà sembrava essere altrove: nelle stanze dei partiti, negli uffici delle potenze straniere che governavano nell’ombra l’Italia sconfitta in guerra, nei salotti buoni del capitalismo italiano. Le istituzioni non erano in grado di fronteggiare i cosiddetti “poteri forti” e si accontentavano di mettersi al loro servizio, passando da una finzione all’altra. In questo contesto, il concetto di equilibrio dei poteri era interpretato dalla società, seguendo una logica che aveva una storia antica, radicata nel medioevo e forse prima. C’erano due modalità fondamentali. Nella prima, quella dei comuni indipendenti, la società salvaguardava l’equilibrio non per via istituzionale ma attraverso coalizioni a geometria variabile dei detentori del potere, coalizioni che si formavano per contrastare chiunque tra loro ne assumesse troppo di potere. Nella seconda, quella delle regioni governate da potenze straniere, la società si equilibrava coltivando spazi di illegalità e autogoverno anti-istituzionale. Con l’unità d’Italia le due strategie si sono forse ritrovate: la prima a Roma e la seconda nelle periferie. Nell’Italia repubblicana si sono fuse in un labirinto senza apparente via d’uscita.

Ne è emersa una politica intesa come finzione: le istituzioni erano rituali, i poteri erano altrove, le decisioni non erano responsabilità di nessuno o di troppi. Le rendite di posizione hanno costruito le confort zone dalle quali gli italiani non hanno motivo di uscire se non vedono chiaramente il motivo per farlo. È una specie di condizione socio-politica pre-moderna che avvolge l’iper-modernità di altre manifestazioni italiche che si incontrano nell’economia di certi esportatori o nell’innovazione sociale di certe associazioni o nelle capacità individuali di certi scienziati o dei maestri del gusto e della qualità della vita.

Questo è stato l’ancien régime e questo è il modo di vivere al quale naturalmente tendono gli italiani se non sono costretti a fare diversamente. La vita normale è una lotta di tutti contro tutti, con coalizioni temporanee per bloccare le ascese troppo repentine che mettano in discussione l’unica pace possibile in questo contesto, quella delle rendite di posizione, mentre gli innovatori si rivolgono al mercato mondiale e riescono a prosperare. Quando poi lavorano tutti insieme per un bene comune superiore sembrano associarsi per breve tempo, volontariamente ed eroicamente, come si è visto nel Risorgimento, o nel periodo dell’entrata nell’euro. Ma poi tornano a dividersi. O a coalizzarsi per frenare l’ascesa di chi sale troppo.

Può darsi che la rivoluzione sia impossibile in un paese nel quale le istituzioni contano così poco che chi ci lavora è tentato di interpretarle soltanto come uno strumento per gestire una rendita. Ma ciò non toglie che il paese – come ogni altro paese – ha bisogno di adattarsi alla trasformazione del contesto. Può affidarsi a una potenza straniera per riuscirci: in questo caso l’Europa o la Troica sono pronte. Può affidarsi a un uomo forte: che piace quando è in ascesa ma che poi non si vede l’ora di buttare giù. Può spezzarsi in mille tronconi, gestiti dalle società locali e dai notabilati. Oppure può inventare una soluzione migliore. In fondo, lo ha fatto in passato, con i Comuni e non solo. Forse non è il caso di copiare dagli altri, per una volta: non ci insegnano molto i populisti inglesi, francesi o americani e neppure i tecnocrati di Wall Street o di Bruxelles. Questa volta dovremmo cavarcela da noi: con innovazione civica.

Per queste ragioni forse gli italiani sono adatti a un Parlamento eletto con sistema proporzionale. Ma per queste ragioni non si possono neppure aspettare che la modernizzazione venga dall’alto, dalle istituzioni o da chi le occupa temporaneamente. Per queste ragioni la modernizzazione la fanno nelle loro città, nelle loro aziende, nelle loro famiglie. Senza contare sulle maggioranze, che non sono mai assolute, ma lavorando sulle coalizioni e sulle solidarietà temporanee, che sono relativamente possibili. Ne emerge una strategia di lungo periodo, ma che deve affrontare problemi urgenti: banche e lavoro e giovani soprattutto.

Il presidente della Repubblica dovrà parlare e unire di fronte all’emergenza. La società dovrà capire e lavorare per la ricostruzione. I poteri si dovranno equilibratamente mettere a disposizione del processo. Il masochismo del referendum non è stato un buon auspicio in questo senso. Non deve proseguire con un’auto-punizione per i modernizzatori. Occorre piuttosto che lavorino a mantenere accelerato il processo.

Nel paese che non conosce le rivoluzioni ma che invece conosce molto bene i terremoti, si ricostruisce, si ricomincia, si guarda avanti per i figli: col cuore e con la testa, con la cultura e con l’economia. Le istituzioni seguiranno. Forse.

Vedi:
Pierre Hassner, La revance des passions, Fayard.
Participedia
Rodolfo Lewanski, La prossima democrazia (disponibile online).
Patrizia Nanz e Miriam Fritsche, La partecipazione dei cittadini: un manuale, Assemblea legislativa Regione Emilia-Romagna (pdf).

Vedi anche:
Riassunto, referendum
Il referendum dei masochisti
Sì, no, non so, non ho capito

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Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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