Alberto Cottica aveva commentato le discussioni sull’operato dei digital champions con il post ““Salve, straniero.” Riccardo Luna nel saloon delle critiche a Digital Champions“. Ho ricevuto questa proposta da Alberto a valle dell’articolo “Il bicchiere a metà. L’identità di un paese non è definita dallo storytelling, ma dalla storia“:
Certo, Luca, è la storia a fare l’identità del paese. Ci sto. Piccolo problema: la storia del tempo presente verrà scritta, per definizione, nel futuro. Non può aiutarci a prendere le decisioni di oggi. Per quelle siamo condannati a cercare di orientarci meglio che possiamo, ma forzatamente in modo approssimativo. Come va l’Italia? Così. Ma così in meglio o così in peggio? Ci investo o emigro? Ci ritorno o me ne sto all’estero (il mio caso)? Dove la faccio la mia impresa?
Ma hai ragione, la partigianeria ci fa perdere tempo in schermaglie assurde. Tu sei un giornalista famoso, e più di altri puoi contribuire a orientare il tono della discussione dando l’esempio. Ti propongo di darci qualche regola del pollice, più o meno così:
1. Riconosciamo di non avere una visione elegante e condivisa in merito ai grandi temi del digitale e dell’innovazione (ce ne sono altri, ma mi fermo qui). Nessuno ha “la” risposta.
2. Riconosciamo anche di essere tutti sostanzialmente d’accordo che alcune azioni hanno un valore positivo. Nessuno è contro open data, il movimento maker, i servizi pubblici online, un’ampiezza di banda decente, un FOIA italiano, anche se ci sono molte differenze nell’importanza che persone diverse attribuiscono ad azioni diverse.
3. Ci impegniamo a cercare di incoraggiare le iniziative altrui, anche se queste si rivolgono a temi che non sono i nostri preferiti e anche, anzi soprattutto, se sono iniziative umili e grassroots. Per esempio, se il Digital Champion di Lama Mocogno (ammesso che esista) fa un’iniziativa per installare Linux nei computer della scuola, cerchiamo di NON dirgli “non è questo il punto, bisogna fare XYZ”, o “dilettante! io lo facevo già nel 1947” o “ma l’hai letto il rapporto del gruppo di alto livello sul software libero del World Economic Forum del 2002?”. Cerchiamo magari di dirgli “beh, bravo. Prima questa cosa non c’era, e adesso c’è. Perché tu l’hai fatta”
4. Ci impegniamo a essere generosi nel riconoscere il merito. A un presidente del consiglio (o, perché no, a un Digital Champion) che ti porta dei risultati, la reazione costruttiva è: bravo Monti, bravo Letta, bravo anche Renzi, daccene ancora!Ci stai?
Caro Alberto,
grazie per il messaggio. Apprezzo la tua dedizione alla causa. E concordo sulla necessità di trovare un metodo. Sottolineo che stiamo parlando di quello che c’è da fare d’ora in avanti. Non stiamo commentando il passato. Perché commentare il tuo pezzo, linkato in alto, richiederebbe troppe righe e porterebbe a scarsi risultati.
E veniamo al metodo. Ovviamente, bisognerebbe tener conto del fatto che stiamo parlando di ruoli diversi e di persone diverse che sono accomunati dalla speranza di portare valore alla comunità. Eccoti la mia lista delle priorità. Facilmente confrontabile con la tua.
1. Che cosa rispondiamo agli italiani e ai non italiani che si chiedono se l’Italia sia il posto al quale dedicare tempo, denaro, speranze? Chi vuole prendersi questa responsabilità dovrebbe farsi una domanda a monte: “voglio convincere tutti a dedicarsi all’Italia o voglio dire come stanno le cose?”. E dovrebbe aggiungere una seconda domanda: “farò bene all’Italia dicendo come stanno le cose o proponendo una visione parziale (positiva o negativa)?”. In sostanza è la differenza tra “comunicazione e informazione” (sto parlando con molta umiltà della mia idea di questa questione, scritta nel lontano 2003 su “Problemi dell’informazione”). La comunicazione è fedele allo scopo di chi la fa. L’informazione è fedele al pubblico. La prima è partigiana per definizione. La seconda è critica per definizione. La prima si concentra sull’obiettivo di convincere il pubblico. La seconda si concentra sul metodo che serve per documentare in modo indipendente, completo, accurato e legale ciò che va scritto su come stanno le cose. La critica – intesa come valutazione equilibrata delle fonti e del loro significato – è parte integrante dell’informazione. Se vogliamo rispondere agli italiani e ai non italiani che si chiedono se l’Italia sia il posto al quale dedicare tempo, denaro, speranze, con senso di responsabilità, secondo me, dobbiamo informare, non comunicare. Ovviamente chiunque pensi al suo compito come a quello di un Mosè che porta il popolo nella terra promessa non sarà d’accordo. Ma come scrivi, nessuno ha la verità in tasca. E soprattutto ci vogliono i politici e ci vogliono i giornalisti. Io faccio il giornalista. Non solo. Tieni presente che per fare innovazione la strada migliore è sapere come stanno le cose (non essere convinti che stanno bene): perché le cose di solito stanno in modo tale che potrebbero stare meglio e quindi c’è da innovare per riuscirci (se sei convinto che stanno già bene o che sono disperatamente rovinate non innovi con la stessa energia o lasci perdere del tutto). Quindi l’informazione fa bene all’Italia. Ed è proprio sulla conoscenza dei fatti, oltre che sulle policy basate sui fatti, che siamo deboli e possiamo migliorare.
2. Esistono azioni sulle quali sono tutti d’accordo? Se stiamo ai fatti dobbiamo riconoscere che questa domanda ha due risposte molto diverse a seconda del contesto nel quale sono poste. Primo contesto. Siamo nel mondo dell’informazione. Ci sono diversi percorsi. a. Esiste un movimento per arrivare a facilitare le decisioni civiche in modo tale da coinvolgere i cittadini in modo intenso e profondo. b. Esiste una disciplina definita “science based policy” che tenta di proporre policy basate sui fatti e su teorie (visioni) condivise con metodo scientifico. c. Esiste un sistema di esperienze acquisite (quello cui mi pare ti riferisci tu) che dice che ci sono alcune azioni probabilmente positive. Mettiamo che si cerchi di arrivare a una soluzione condivisa da questo punto di vista. Mettiamo che si scelga la terza soluzione. Allora almeno cerchiamo di mettere in ordine le questioni: primo, dobbiamo darci dei principi condivisi (la Dichiarazione sui diritti in internet sarebbe un buon inizio); secondo, dobbiamo comportarci con distacco realistico sulle cose (un esempio tra i tuoi: come si ottiene una banda decente? quali sono le forme con le quali lo stato può aiutare l’estensione della banda? sappiamo che un percorso è avviato: vogliamo dire che va tutto bene o cerchiamo di informare sullo stato di avanzamento?); terzo, facciamo liste di azioni desiderabili con spirito critico, non attivistico, in una logica multistakeholder non scegliendo le lobby in base alla disponibilità alla sponsorizzazione, evitando i conflitti d’interesse e le ambiguità (si può fare, direi, no?). Secondo contesto. Siamo nel mondo della comunicazione. Pensiamo che le cose non succedano se non si agisce in modo da imporle. Giusto, in molti casi. Allora la lista di azioni desiderabili diventa la lista delle azioni che possono andare d’accordo con una politica e con gli strumenti di potere che servono per realizzarle. Siamo nel quadro della politica, in quel quadro le cose funzionano così. C’è chi se ne occupa. Se mi chiedono un parere lo offro sempre. Ma una cosa è certa: in politica non sembra che possa darsi una situazione in cui tutti sono d’accordo: anzi, avviene che su qualunque questione ciascuno tenti di intestarsi il merito e addossare agli altri il demerito. E’ un modo di fare la politica che non mi piace. E’ quello che è. Spero che cambi. In qualche modo, forse, sta cambiando (soprattutto per esaurimento delle forze degli italiani, ma anche perché un po’ di cose stanno funzionando meglio).
3. Ci sono azioni che hanno valore positivo per tutti e che sono compiute da gente famosa e potente o sconosciuta e debole. Vanno valorizzate tutte per quello che è possibile. Giusto. Siamo d’accordo. Posto che si possa altrettanto essere d’accordo sul fatto che la critica di ciò che viene fatto male, da gente famosa e potente o sconosciuta e debole, sia altrettanto legittima. Quello che conta valutare è il merito delle cose, non chi le fa, non con chi sta chi le fa.
4. Onore al merito per tutti quelli che fanno fatti. Anche nel post che hai commentato con questo messaggio ho sottolineato i risultati di Monti, Letta e Renzi. Questo è quello che conta. Così come va detto quello che questi politici non hanno fatto. O non hanno fatto ancora.
Quanto alla storia, quella alla quale dedichi le prime righe, la storia è stata la mia disciplina di studio. I miei maestri mi hanno insegnato a pensare da storico. E trovo che generi un mondo intellettuale sofisticato e semplice, inclusivo e rispettoso, non ideologico e non fazioso (anche se non mancano gli storici che disattendono questo approccio). E’ proprio con metodo storico che cerco di raccontare l’innovazione. Il presente è il momento nel quale compiamo le azioni che generano le conseguenze delle quali è fatto il futuro. Compiamo quelle azioni sulla base di un’idea più o meno sofisticata, attenta, realistica, delle loro conseguenze. Non possiamo prevedere il futuro. Ma possiamo essere consapevoli o inconsapevoli del bisogno di pensare le conseguenze di ciò che facciamo. Quando parliamo di queste cose, non possiamo sottovalutare il valore di ciò che diciamo. Usare la banalizzazione per ottenere risultati è un rischio: perché aiuta solo a compiere scelte banali. Ogni approccio partigiano è banale, da questo punto di vista, perché è parziale. Genera risultati banali, parziali. L’ideologia non libera le forze innovative e creative delle persone le chiude in una gabbia di ignoranza. Qualunque ideologia. La ricerca è la strada della libertà, dunque dell’innovazione. Non voglio abbandonare l’idea di poter interpretare con approccio storico il presente: è il modo per ottenere un pensiero libero, non schiavo delle idee avute in passato, ma aperto alle idee ancora da scoprire. Certo, questo non è il percorso del politico. Io non sono un politico.
Ma attenzione. Chi arriva a realizzare cambiamenti che hanno conseguenze positive? Il politico? L’intellettuale? Il finanziere? L’imprenditore? Il fazioso? Il famoso? Lo sconosciuto? Tutti, insieme, contribuiscono, nel conflitto e nell’accordo, nella discussione e nella disattenzione, nella ricchezza e nella banalità, a generare azioni. La direzione strategica positiva è valutazione di ciascuno per quanto riguarda il suo interesse: è valutazione di una cultura per quanto riguarda l’interesse di tutti. Facciamo cultura e troveremo la direzione che più probabilmente fa l’interesse di tutti.
Non ti voglio convincere di tutto questo. Ti racconto come penso. E come penso che si possa ragionare, scrivere, discutere. Criticamente.
Che cosa ne pensi?
[…] Un metodo per collaborare nel racconto dell’Italia che innova […]
Luca, le regole che ti ho scritto sono solo una specie di esempio, di primissima bozza molto migliorabile. Ma già così mi sembrano in grado di rispondere al tuo dilemma “informazione vs. comunicazione”. Ne accetto provvisoriamente i termini – in realtà non credo proprio che si possa distinguere in modo netto tra le due cose: si rischia che queste parole vengano usate come armi retoriche (io informo con correttezza, tu comunichi in vista dei tuoi obiettivi).
Riassumo la situazione che descrivi, per come l’ho capita: tu, in buona fede, decidi di fare il cronista (non lo storico, se parli del presente, mi spiace ma questa non te la passo. Motivo: il paradosso dell’Ideal Chronicler di Arthur Danto). Riccardo Luna (o io, o chiunque) decide, altrettanto in buona fede, di fare una cosa che a te appare come comunicazione. Che fare?
Applichiamo la regola 1. Siccome non abbiamo “la” risposta, va bene così: entrambe le strategie vengono tentate, si riduce il rischio, inteso come le conseguenze di seguire un’unica linea che potrebbe essere sbagliata.
Poi applichiamo la regola 3, incoraggiare le iniziative altrui. Tu applaudi il comunicatore, il comunicatore applaude te. Non c’è bisogno di essere appiattiti sul tutto bello, tutto alla grande. Va benissimo farlo in modo critico: mah, io avrei fatto e sto facendo altro, ma complimenti per l’inizitiva, in bocca al lupo.
Infine, se ci sono risultati, applichiamo la regola 4. Ha funzionato? Bravo, bene! Non ha funzionato? Peccato, ma almeno ci hai provato.
Ma forse non ho capito la tua suggestione. Mi sembra di scrivere cose di una banalità assoluta. Dove sbaglio?
Ciao Alberto, grazie ancora delle tue proposte. Ci sono un po’ di presupposti sui quali devo tornare per rispondere.. Riprendo il discorso appena possibile..
Alberto, sempre in viaggio… Comunque, quello che vorrei scriverti riguarda la misura. Che cosa è importante, che cosa è interessante, che rapporto c’è tra le due questioni? Quello che conta alla fine è il risultato, il percorso contiene tante strade: alcune strade maestre, scorciatorie, vicoletti ciechi… Ho l’impressione che dovremmo trovare l’equilibrio nel racconto quotidiano, valorizzare la realtà dei fatti e stabilire alcune priorità nella grande narrazione che fa la prospettiva di tutto.. Mi ci vuole un altro post per spiegarmi con esempi e frasi meno smozzicate… Arrivo appena possibile. Abbi pazienza
ecco, queste erano le premesse alla risposta… vedi un po’ che cosa ne dici..
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[…] alle decisioni strutturali Questa volta è diverso. Agenda digitale senza alibi. Ed è positivo Un metodo per collaborare nel racconto dell’Italia che innova Informazione o […]