Le piattaforme hanno successo se attorno a loro si sviluppano ecosistemi di iniziative e attività. I programmatori, gli imprenditori, gli autori o gli utenti che si interessano a posti come Twitter, Facebook e così via, cercano di comprendere come funzionano quelle piattaforme, prendono un’iniziativa, la portano avanti, sperano che di raggiungere degli obiettivi. Scommettono il loro tempo e talvolta il loro denaro su quelle piattaforme perché pensano che le regole che le governano siano stabili e chiare.
Avviene che qualche volta le piattaforme decidano autoritariamente di cambiare le regole. Le proteste non mancano e qualche volta i cambiamenti vengono corretti. (Vedi il caso di Twitter in questi giorni: NyTimes e Quinta).
La consapevolezza che all’interno delle piattaforme proprietarie i progettisti abbiano il potere è necessaria. È anche importante sapere che in qualche modo gli utenti possono influire sulle decisioni dei proprietari. Ma la struttura liberatoria è e resta la struttura aperta di internet come bene comune.
Questa per adesso garantisce che almeno una nuova piattaforma possa sempre venire fuori a correggere i difetti delle precedenti.
Ma ci vorrebbe anche qualcosa di più. Piattaforme che siano beni comuni.
Vedi anche:
Who rules the internet economy
Piattaforme come trappole per contenuti
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