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Tar del Lazio, equo compenso e equilibrio del copyright

Sulla scorta di una sentenza del Tar del Lazio pubblicata il 3 marzo e segnalata da Valerio Lubello, via Nexa, si può tornare alla questione delle norme equilibrate a garanzia del copyright e di tutti gli altri diritti dei cittadini collegati alla produzione culturale, compreso il pubblico dominio, intorno ai quali era arrivato anche l’interessante commento di Enrico Pozzi.

Scusandomi per le eventuali imprecisioni nei termini, ricordo che la sentenza conferma la legittimità della norma secondo la quale chiunque compri uno strumento contenente una certa quantità di memoria elettronica deve pagare un balzello che va direttamente a ripagare i detentori di diritti di copyright (attraverso le società che genericamente li rappresentano) per le possibili copie private che si possono registrare delle opere altrui. Non sono pochi soldi. E sono pagati da tutti, anche da coloro che non fanno copie private di opere d’autore. E sono pagati in ragione della quantità di memoria che contengono gli strumenti elettronici acquisiti: telefoni, computer, chiavette, dischi, e così via, hanno un prezzo al quale si aggiunge l’iva e il “compenso” destinato alle società che raccolgono i soldi in nome degli editori e degli autori.

Il denaro così raccolto non è poca cosa. In base alle notizie di qualche tempo fa, si osservava che un iPod può passare da 55 a 61 euro a causa del “compenso” per le eventuali copie private che l’utente può registrarvi, un iPod nano passava da 139 a 143 euro. Un iPod con 64giga di memoria costava 10 euro in più. Aumenti analoghi si potevano immaginare per altri oggetti elettronici. Qualcuno prevedeva che nel 2012 gli aumenti dovuti per il “compenso” saranno anche da 80 euro per certi strumenti. Il decreto Bondi collegava il “compensoSiae alla quantità di memoria dei device. Questo compensa la copia privata. (Per esempio, quella che in passato la gente faceva dal disco di vinile alla cassetta. Che a quei tempi non risulta fosse un gran problema di diritto d’autore. In ogni caso, era normale che se uno comprava un disco e si faceva una cassetta da sentire in macchina si sentiva perfettamente a posto con la legge. Mentre la legge è poi cambiata e ha portato a monetizzare a favore della Siae anche questo. In pratica, a parità di prezzo del disco, la persona perdeva un certo valore: quello di potersi fare una copia da sentire in macchina. Una novità che legittimamente si poteva sentire come un’estensione del copyright e una riduzione del valore del disco legalmente acquistato).

La recentissima sentenza del Tar ha dunque ribadito il principio secondo il quale anche soltanto acquistando uno strumento che può essere usato per registrare copie di materiali soggetti al diritto d’autore si deve pagare qualcosa alla Siae. Il principio ha allargato il territorio dei comportamenti sociali che sono soggetti a pagare il copyright. E poiché quel territorio non è soltanto quello nel quale le persone effettivamente copiano materiale sotto copyright (perché uno può usare la sua memoria anche per registrare le foto che lui stesso ha scattato o la musica che lui stesso ha composto) ha riversato sulla collettività nel suo complesso l’onere di sostenere economicamente editori e autori. Il principio è dunque che la collettività nel suo complesso è chiamata a sostenere editori e autori. E non solo volontariamente: non solo per beneficienza, ma per obbligo di legge.

Non a caso, alcuni hanno proposto che anche le compagnie di telecomunicazioni dovrebbero pagare qualcosa agli editori per il trasporto su Adsl e banda internet delle opere soggette a copyright.

E non si capisce perché dunque non si dovrebbe finire col pensare che gli editori e gli autori sono considerati una categoria che non vive solo di mercato ma anche di sostegno pubblico. Alla fine non è più tanto insensato pensare che questo principio sia compatibile con l’idea che il futuro degli editori e degli autori sia legato alla benevolenza della società nel suo complesso e non tanto all’acquisto sul mercato delle opere registrate.

La separazione delle opere soggette a copyright dal loro supporto ha ridotto la difesa del copyright. E dunque la società – grazie al legislatore – ha deciso che lo difende addossando all’intera collettività il costo del copyright.

Il territorio coperto da copyright è stato esteso nel frattempo anche allungando la durata del diritto d’autore. E riducendo in modo corrispondente il pubblico dominio (le opere che sono tanto vecchie da essere liberamente utilizzabili, per esempio, fanno parte del pubblico dominio).

In un sistema equilibrato, questo può essere un compenso per le perdite subite dagli editori tradizionali a causa del passaggio alle nuove tecnologie che rendono molto più facile copiare le opere soggette al copyright.

Ma nel lungo periodo, questo che cosa significa? Due alternative: o gli editori riescono a riappropriarsi della leadership tecnologica e quindi a trovare prodotti e servizi che li compensano per il loro lavoro in ragione degli scambi che avvengono sul mercato, oppure le collettività si assumeranno il costo di sostenerne il lavoro, in modo forzoso o volontaristico. Questa almeno mi pare sia la conseguenza del principio contenuto nella legge sull’equo compenso.

Non c’è dubbio che la scelta di imporre forzosamente un sostegno collettivo (anche da parte di chi usa la memoria del computer per scopi che non sono la registrazione di opere soggette a copyright) agli editori attraverso la Siae, aiuta gli editori stessi nella fase di transizione attuale. Ma ne rallenta anche la tensione all’innovazione che li condurrebbe a riappropriarsi della leadership tecnologica. L’equilibrio che si forma in questo modo è relativamente sfavorevole all’innovazione e favorevole al mantenimento della tecnologia attuale. Ma logicamente conduce verso una situazione nella quale prevale un’interpretazione del lavoro editoriale come atività che la comunità sostiene piuttosto che come attività che si sostiene sul mercato. Imho.

Per rispondere dunque a Pozzi: ci sono due possibilità, o si trova una tecnologia che consenta al suo investimento di raggiungere il mercato e di ottenere un compenso per il lavoro, o si ricorre alla benevolenza di qualcuno. Quella tecnologia dovrebbe essere una piattaforma in grado di portare la sua opera al mercato e di dare un ritorno all’autore e all’editore. Questo tipo di tecnologia, Apple o Amazon che sia, esiste ma non appartiene a editori tradizionali. Un’innovazione potrebbe essere l’introduzione da parte degli editori tradizionali di una piattaforma analoga e magari migliore. Non è impossibile. Se però gli editori tradizionali non riescono a farla dovremo aspettarci che siano le grandi piattaforme globali (oltre a Apple e Amazon, forse anche Google e Facebook ci arriveranno) a sopperire, almeno in parte, al lavoro che un tempo facevano gli editori. E gli autori tenderanno a cercare chi garantisca loro un modello di business: dunque passeranno a vendere direttamente attraverso
quelle piattaforme. Per gli editori tradizionali – si direbbe insomma – la strada è quella dell’innovazione, o della protezione pubblica, o della benevolenza sociale.

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  • Argomento molto interessante: per certi versi, rientriamo nella magica bolla dell’evasione fiscale, per cui il nostro Premier continua (a mio avviso, a ragione) a sostenere che tutti dobbiamo pagare di piu’, perche’qualcuno non paga. Ora, non mi sembra logico far pagare a tutti un sovrapprezzo sui dispositivi che abbiano una memoria per ripagare l’editoria. Da profano chiedo: perche’ancora non si riesce a debellare il peer-to-peer? Una volta si diceva che i cd costavano tanto perche’esistevano le copie pirata e gli MP3. cosa manca per fare l’ultimo passo (a parte la solita volonta’lobbystica)?

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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