I media sono un freno o un elemento dinamico nello sviluppo della nostra società? Contano di più le spinte innovative della rete dei media sociali o le resistenze dei grandi media tradizionali? È possibile che i media sociali e quelli tradizionali vadano finalmente in sincrono, oppure resteranno in latente conflitto?
La risposta non è nei media, ma nel nostro modo di vedere la società, il ruolo dell’ecosistema dell’informazione e il nostro ruolo di produttori e fruitori di messaggi.
Se diciamo su Twitter che l’autobus è in ritardo, diamo una mano ai nostri concittadini che si organizzano la giornata. Ma se diciamo che l’autobus della Moratti arriva in ritardo che cosa facciamo? Entrambe le attività sono legittime, ovviamente, ma la seconda alimenta un equivoco interessante.
Ci sono molti equivoci nella discussione sui media attuale, ricca di commenti e contributi ma ancora poco chiara su alcuni temi decisivi. Una delle fonti principali di equivoco è relativa alla questione della presunta incapacità dei social media di incidere sull’agenda del paese, un compito che si attribuisce o che si ritiene resti saldamente in mano ai media tradizionali. Se ne parlava ieri, a The Hub Milano, alla presentazione dell’importante libro di Michele Mezza, “Sono le news, bellezza. Vincitori e vinti nella guerra della velocità digitale” (Donzelli 2011). Diceva Edoardo Fleischner che – riassumo indegnamente – in Italia per quanto si faccia sembra resistere un tappo enorme di potere che a un certo punto interviene a bloccare l’innovazione nei media. E come non vederlo? Ma è poi vero che questo dimostrerebbe una sorta di inefficacia dei social media?
Il problema è aperto. Ma forse va posto in modo più preciso per poterne uscire. La mia proposta è quella di distinguere il contesto della discussione: la dimensione dei fenomeni sociali è diversa da quella dei fatti politici, anche se è evidentemente – pure troppo – collegata. Se non riusciamo a distinguere tra la dimensione sociale e la dimensione politica non ne veniamo a capo. Se l’invadenza della dimensione politica ci induce a pensare solo al conflitto di interessi tra poteri e candidature, persino quando parliamo della nostra vita quotidiana, la politica avrà vinto ma noi avremo perso.
Perché noi vogliamo trovare una strada per svilupparci anche se il tappo di cui parla Fleischner ci resta sopra la testa. E per la verità molti hanno trovato una strada. Guardando il problema in modo nuovo.
È uno dei contributi che forse si può trovare nel libro “Cambiare pagina. Per sopravvivere ai media della solitudine” (Rcs 2011) che sta uscendo in questi giorni (anche in ePub).
L’idea è questa.
C’è una dimensione nella quale le risorse sono scarse e il gioco competitivo riguarda la loro spartizione. In questa dimensione, vale tutto e in un paese come l’Italia vince la contrapposizione politica: sui media questo è il tema di fondo. E i grandi media sono stati occupati da questa battaglia di trincea. Le sue forme e i suoi messaggi tracimano nei media sociali ogni giorno. Ed è normale, in un paese in cui la dimensione delle risorse scarse, appunto, è dominata dalla politica.
Ma c’è una dimensione nella quale le risorse si generano. È la dimensione degli esportatori, delle piccole e grandi imprese che guadano al mondo come al loro ambiente di sviluppo. Ieri a The Hub c’erano diversi ragazzi che pensano così: c’era Mauro Rubin che ha fatto JoinPad, un prodotto più conosciuto nella rete mondiale che nel territorio nazionale; c’era Carlo Alberto Degli Atti che sta sviluppando myK; c’era il cofondatore milanese di The Hub che pensa al territorio come a un luogo profondamente importante ma lo interpreta in quanto connesso a ogni altro territorio. L’altro giorno ero a H-Farm, a Roncade sul Sile, un incubatore di start up che pensano nello stesso modo. E parlavo con Mario Mariani che a sua volta sta aiutando con un incubatore la nascita a Cagliari di diverse imprese che guardano al mondo. È una dimensione nella quale il territorio conta, ma non è definito dalla politica: è un territorio pensato come piattaforma sociale, connesso all’economia globale, dotato di un senso culturale unico.
I media sociali stanno dando una mano enorme alla crescita della dimensione nella quale le risorse si creano. Mentre spesso subiscono la logica politica di corto respiro quando sono coinvolti nella dimensione della spartizione delle risorse. Ma questo non avviene perché non sono efficaci: avviene perché il problema della spartizione delle risorse è un vicolo cieco, perché la cultura del conflitto politico per la spartizione delle risorse strumentalizza ogni medium, influenza quelli tradizionali ma certamente non disdegna di invadere i media sociali.
Prendendo consapevolezza di questo fenomeno si potrebbe parlare forse di Big Social Network. L’ispirazione è nell’idea di Big Society di David Cameron, conservatore inglese, che è stata finora una buona idea di marketing politico più che una base effettiva di governo, a quanto pare. Ma quella idea individuava e ribadiva una distanza tra la dimensione dello stato e quella della società che ha una sua importanza nella condizione contemporanea.
Ci vorrebbero mille post per un tema del genere. E mi scuso della fretta con la quale è stato scritto questo.
Quel maledetto autobus è rimasto in testa a tutti!!