Alex Chitu riporta una mail (tutta da leggere) inviata da Jonathan Rosenberg, Senior Vice President di Google, sulla necessità di usare il più possibile standard aperti e pratiche di apertura. Non per altruismo. Ma perché solo così si fa crescere un ecosistema vero. Ottimo!
“If you are trying to grow an entire industry as broadly as possible,
open systems trump closed. And that is exactly what we are trying to do
with the Internet. Our commitment to open systems is not altruistic.
Rather it’s good business, since an open Internet creates a steady
stream of innovations that attracts users and usage and grows the
entire industry,” dice Rosenberg.
Ma che cosa significa “aperto”? Su questo non c’è uno standard. Ma ce ne sarebbe bisogno. Rosemberg propone una definizione impegnativa, anche per Google.
“There are two components to our definition of open: open technology and
open information. Open technology includes open source, meaning we
release and actively support code that helps grow the Internet, and
open standards, meaning we adhere to accepted standards and, if none
exist, work to create standards that improve the entire Internet (and
not just benefit Google). Open information means that when we have
information about users we use it to provide something that is valuable
to them, we are transparent about what information we have about them,
and we give them ultimate control over their information. These are the
things we should be doing. In many cases we aren’t there, but I hope
that with this note we can start working to close the gap between
reality and aspiration.”
E questo significa rinunciare a costruire un business nel quale i clienti siano “costretti” all’uso di una certa tecnologia e dunque dal quale i competitori sono esclusi. Per essere leader con l’innovazione e non in base alla posizione.
“If we can embody a consistent commitment to open — which I believe we
can — then we have a big opportunity to lead by example and encourage
other companies and industries to adopt the same commitment. If they
do, the world will be a better place.”
E’ interessante nnotare come un concetto simile lo esprima Anderson nel suo ultimo libro, Free.
In pratica sostiene che Google deve necessariamente ampliare il proprio raggio di azione per sostenere un’economia che si basa sul gratuito, quindi cercare di portare sempre più teste su sempre più servizi.
Il modo migliore per ampliare il mercato è dunque quello dell’open, l’esatto opposto della logica dell’economia classica e delle politiche difensive spesso usate nel passato (si pensi alla guerra santa di Microsoft contro l’open source).
La cosa interessante che nota Chris Anderson, a mio parere, è che non solo l’open porta indubbi vantaggi alle persone, ma favorisce un modello economico basato sul gratis, quindi libera liquidità.
Insomma, con l’open diventiamo più liberi e potenzialmente più ricchi, il che mi sembra un bel binomio.
L’open è formidabile perché manda all’estremo quello che gli economisti chiamano selezione avversa, ovvero permette di valutare i requisti, vantaggi e benefici delle offerte, focalizzando i ricavi in segmenti più definiti di domanda spendente o cedendo lo stesso servizio a pagamento ad un prezzo più basso. Condiziona alle imprese di innovare perché azzera il valore delle offerte base, le rende commodities. Aumenta il ciclo di fallimento delle imprese che investono in protezioni e deterrenti.
In realtà non c’è niente di free, ma sarebbe solo il corrispettivo ceduto gratuitamente a fronte di un altro modello di ricavi che si vuole incentivare su determinati servizi, la cui struttura dei costi di produzione è stata resa logora dall’eccesso di risorse disponibili che non hanno trovato mercato. Eccesso caratteristico dei beni ad alto contenuto di conoscenza: tutti i costi vanno per la produzione della prima soluzione di prodotto. Per questo paradossalmente il valore dei brevetti, dove possibile aumenta a dismisura. Sono le due facce della stessa medaglia.