Alcuni prestigiosi sviluppatori che lavoravano per la piattaforma iPhone-AppStore stanno abbandonando, perché non sopportano più le procedure di controllo del software messe in atto dalla Apple. Già qualche giorno fa aveva abbandonato Joe Hewitt, l’autore della app di Facebook. Ma i casi si moltiplicano, come segnala ArsTechnica.
Un ecosistema troppo centralizzato non funziona. Non solo perché è inefficiente e rallenta il processo in un settore che ha enorme bisogno di velocità di azione e di feedback, tanto che per migliorare la performance la Apple ha introdotto alcuni livelli di giudizio automatizzati. Che a loro volta non piacciono a molti.
Un ecosistema troppo centralizzato non funziona soprattutto perché le innovazioni intelligenti non possono essere comprese tutte dalla stessa entità e il modo di pensare dell’entità centrale non può essere tanto preciso e perfetto da convincere tutti della sua qualità intellettuale. E se questa è la situazione, la motivazione dei creatori diminuisce, riducendo la creatività del sistema.
Il successo economico della piattaforma iPhone è stato finora tale da convincere la maggior parte dei clienti e degli sviluppatori. E un certo grado di controllo centrale ha fatto parte dei motivi di quel successo. Ma il governo di un sistema complesso è un’arte delicata.
Per giudicare, oltre a selezionare le informazioni strumentali derivate da una sorta di cattiva stampa che si può generare intorno a qualunque governo (in questo caso molte voci critiche sono nate dopo lo scontro Apple-Google intorno a Google Voice sull’iPhone), occorre cercare di comprendere quali sono i dati di fatto fondamentali. Forse, in questo caso, una risposta interessante da Apple potrebbe riguardare da un lato qualche forma di maggiore trasparenza nei metodi con i quali il software proposto viene giudicato, una più precisa dichiarazione sui tempi di accettazione o rifiuto, una più ampia informazione sui dati che riguardano il gradimento degli utenti sull’insieme dell’ecosistema e sulle singole applicazioni. Troppa segretezza e troppo autoritarismo, generano sospetti e malumori: per sconfiggerli, talvolta, basta spiegare meglio i fatti.
Trasparenza da Apple…
si, ciao.
Una volta c’erano i kremlinologi, quelli che dicevano di sapere cosa succedeva in URSS.
Oggi ci sono i vaticanisti e gli applologi, le nostre uniche fonti di informazione, di solito inaffidabili.
Non l’ho inventata io, circolava qualche anno fa, detta molto meglio.
Con la convergenza del mobile verso l’esperienza tipo-PC secondo me tutto il modello dell’app store è destinato a fallire (quantomeno nella sua incarnazione attuale): immaginiamo per un secondo se microsoft avesse uno store che è l’unico luogo dove ottenere legalmente applicazioni per windows.
Apple sta ancora vivendo dell’innovazione iniziale, gli altri stanno correndole dietro stressando chi più chi meno l’importanza di un ecosistema aperto.
Vedremo come andrà, ma secondo me è molto difficile che l’app store sopravviva nella sua attuale incarnazione, quando i competitor saranno più forti apple si dovrà rassegnare ad aprire il suo ecosistema rendendo possibile anche l’acquisto di applicazioni da terze parti oppure venire sorpassata.
Apple è una società che vende hardware. Period. Il software le serve a far vendere hardware. Se c’è una cosa che Jobs ha piantata in testa è “mai perdere il controllo della piattaforma” e “estendi la tua piattaforma il più possibile, senza perdere il controllo di nulla, perchè ogni territorio perso è la base del prossimo nemico”. Molto maoista. Ora si è inventato la tecnologia per costringere la gente a guardare la pubblicità (pena, si suppone, il blocco dell’applicazione, dell’iPhone, dell’iPod, del computer), ossia sfruttare la presa sulla piattaforma per spremere un altro po’ di soldi. Oggi Radice, che legge il NYT, magari anche solo online, se ne è accorto e lo ha scritto sul Corriere.
Captcha, implacabile (poi lo stronzo sono io) mi propone come pass “First Capone”, poi dici la sincronicità di Jung….