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Il valore del venture capital

Vivek Wadhwa, imprenditore divenuto professore (UC-Berkeley, Senior Research Associate a Harvard Law School
e Executive in Residence at Duke University) discute sull’importanza del venture capital nel sistema dell’innovazione.

Poiché l’assenza di venture capital è una delle tipiche lagnanze italiche, vale la pena di leggere il suo pezzo su TechCrunch.

Wadhwa non è d’accordo con l’idea che il venture capital sia la causa dello sviluppo dell’innovazione. Sostiene che una minoranza di start up americane è nata grazie al venture capital. E pensa che il venture capital non sia il motore ma eventualmente l’amplificatore del successo di un’impresa innovativa. I venture capitalist non generano innovazione, vanno dove vedono che c’è già innovazione e probabilità di successo. L’innovazione, dice, la fanno gli imprenditori.

Si può aggiungere che il venture capital è particolarmente utile per le innovazioni che puntano a servire alla crescita aziendale, quanto più grande tanto meglio. E i venture capitailst agiscono di solito con metodi relativamente standardizzati. Ne consegue che sostengono soprattutto (non solo ma soprattutto) innovazioni orientate a generare piattaforme scalabili e a prodotti in grado di arrivare a grandi volumi. (Ripeto: non solo ma soprattutto). Il che significa che sono meno rilevanti per aziende che non puntino alla crescita indefinita e che si muovano in business con ampiezza relativamente limitata e contenuti relativamente specialistici. Come sono le tipiche start up italiane. Donde un motivo per comprendere come fa l’Italia a essere sempre ai primi posti nella nascita di nuove imprese e a non avere un vasto sistema di venture capital.

Non c’è dubbio che servirebbe all’Italia crescere anche nell’utilizzo di questi strumenti finanziari. Ma è anche chiaro che non sono gli unici che servono a sostenere l’ecosistema dell’innovazione. Se non ce n’è tanto in Italia di venture capital è perché le aziende che producono innovazioni all’italiana non hanno tipicamente le caratteristiche e le strategie adatte a quello strumento. E’ un problema. Uno dei tanti. Ma la soluzione non è nel lamento.

(update: un commento critico nei confronti di Wadhwa da Chris di Adventures in capitalism)

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  • Giovedì scorso sono stato al politecnico di milano al meeting “un ponte tra milano e la silicon valley” e ne deduco che il problema in italia sono i capitali, non l’innovazione. L’imprenditore milionario nel massimo della sua ascesa decide di comprare una squadra di calcio, questo trend è regolato dalla nostra cultura mediatica (tv). Ma qualcosa si sta muovendo come ad esempio H-Farm e Gymnasium di Funambol che hanno importato un nuovo modello: lasciare lo sviluppo in Italia utilizzando capitale estero.
    ho scritto qualcosa in più qui: http://plumfake.net/2009/09/la-silicon-valley-e-uno-stato-mentale/

  • Forte della mia piccola esperienza posso confermare che anche i venture capitalists italiani spingono per progetti che fin dall’inizio assumano una dimensione world wide, in modo da generare, se va bene, grandi ricavi in poco tempo; non sono affatto convinto che sia la strada giusta per un Paese come il nostro.
    Proprio perché le piattaforme vengono concepite come scalabili fin dall’inizio si dovrebbe partire con ambizioni “nazionali” (o europee), sapendo che il progetto prevede già la possibile espansione.
    Con un’impostazione del genere diminuisce di molto il numero di progetti realizzati e di conseguenza quelli di successo.

  • Economia3 a Prato intervento di E.Piol vate del VC in Italia le sue opinioni brevemente riassunte in http://blog.exout.it/?p=291
    Sono d’accordo sul fatto che non possa essere l’unica via,d’altronde non è pensabile che un Venture Capitalist “non voglia fare soldi”.
    Comunque chiedete al Prof. Barontini della Scuola Superiore S.Anna di Pisa, quali alternative offrono le Banche e/o le Politiche allo sviluppo…

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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